Volkswagen Phaeton: perfezione tragica.
Si dice che gran parte dell’avvenire di un’automobile si possa prevedere dal nome col quale si decide di battezzarla.
Il mito di Fetonte è poeticamente crudele come solo una leggenda greca sa essere: nato dall’amore fra Apollo e la ninfa Climene, Fetonte era sonoramente perculato dagli amici che non volevano credere alla storia che lui fosse figlio del dio del Sole.
Soffrendo per la cosa, Fetonte un bel giorno andò a casa dell’illustre genitore per supplicarlo di fargli portare per un giorno il carro del Sole, così avrebbe potuto fare cicca – cicca agli scettici amichetti miscredenti. Nonostante la ferma contrarietà del padre, il figlio putativo alla fine riuscì chissà come a convincerlo, e partì al galoppo.
Una volta sul carro però, il giovane fu colto da quella che in guisa scientifica potremmo chiamare “fottuta paura del vuoto”, e perse il controllo del carro che cominciò a portare il sole troppo vicino al suolo terrestre, carbonizzando tutto. Zeus, per salvare gli umani, da uomo senza mezze misure che era scagliò una folgore su Fetonte che morì sul colpo precipitando nel fiume Eridano, che oggi si chiama Po.
Ho trascritto questa allegrissima vicenda non solo per dirvi “Ehi, se avete voglia di farvi un bagno nel Po ricordatevi che ci è morto Fetonte” o solo per fare il ganassa cosmico con la mia non eccelsa cultura classica, ma bensì per chiedervi – e chiederMI – se quei geni che stanno a Wolfsburg, nell’atto di battezzare un loro ambizioso modello avessero usato di proposito il nome di un povero pirla che, per colpa della sua ambizione, si è miseramente sfracellato al suolo.
No, lo chiedo perché, se qualcuno non se ne fosse accorto, alla Volkswagen Phaeton ha arriso lo stesso identico inglorioso destino, dovuto essenzialmente a due fattori: ambizione smodata ed eccesso di fiducia.
Cominciamo subito a chiarire una cosa: la Phaeton non era una cattiva auto, anzi, era praticamente perfetta, forse la miglior ammiraglia del suo tempo.
Il suo concepimento era dovuto al “solito” vulcanico Ferdinand Piech, il mitico ingegnere che quando si metteva in testa una cosa, cascasse il mondo, era quella. Un uomo decisionista ed autoritario che ebbe diversi meriti, innanzitutto quello di portare il gruppo Vag in cima al mondo, letteralmente inventandosi brand di enorme successo (uno per tutti, Audi) e portando in attivo, dopo averle comprate, case in crisi nera (Skoda, Lamborghini, Ducati), ma che quando faceva una belinata, signore Iddio, la faceva bella grossa.
All’inizio del terzo millennio, dopo aver acquisito Seat e Skoda, Piech pensò (e fu una giusta intuizione) che fosse il caso di riposizionare il marchio Volkswagen verso l’alto, su target di clientela e range di prezzi decisamente più elevati: non esattamente al livello di Audi, ma quasi.
A ciò si aggiunga che, pochi anni prima, quei mattacchioni della Mercedes avevano deciso di “sconfinare” in basso, nel segmento ove regnava incontrastata la Golf, lanciando la Classe A.
L’ingegnere non poteva lasciarla passare liscia a “quelli”, e secondo una logica di rappresaglia industriale che solitamente non porta a niente di buono, ordina ai progettisti di lavorare ad una grossa berlina che si posizioni in un segmento decisamente superiore rispetto alla Passat, andando a rivaleggiare con Mercedes Classe S e BMW Serie 7, e che rappresenti la summa di tutto il meglio che la tecnologia è in grado di esprimere in quel momento: insomma, quasi un’Audi A8, ma con il marchio Volkswagen.
Come spesso era avvenuto per altri progetti, e come ancora sarebbe successo (vedi al capitolo Bugatti Veyron), il numero uno di Wolfsburg, si trova a litigare coi suoi collaboratori a dir poco scettici sul buon esito dell’operazione. Il dirigente austriaco è un uomo che giammai retrocede sulle sue idee e, come di consueto, impone ai progettisti dei severi parametri che l’auto definitiva dovrà rispettare.
Per la costruzione del nuovo modello Piech commissiona la costruzione di un faraonico impianto di produzione, la “Fabbrica di vetro” nel centro storico di Dresda. L’edifico è composto da ampie vetrate, permettendo ai passanti all’esterno di assistere all’intero processo di costruzione di ogni singolo esemplare. L’idea del boss è che il committente che ne faccia richiesta possa avere la possibilità di seguire passo passo la costruzione della vettura ordinata, godendo nel frattempo dell’ospitalità assicurata dall’hotel incorporato nella fabbrica, che manco a dirlo assicura un trattamento di lusso, fra fiumi di champagne e Jacuzzi perennemente in funzione.
Insomma una spesa ciclopica, senza limiti né precedenti, il tutto per un modello i cui esperti di marketing hanno cercato fino all’ultimo di sconsigliare Piech.
Nel 2002, la Phaeton viene svelata alla stampa, e non delude le aspettative: finiture impeccabili, quantità di accessori difficile anche solo da enumerare, e un comparto motoristico con numeri che mettono soggezione: le motorizzazioni “d’ingresso” sono due V6: il 3.0 diesel TDI da 222 CV e il 3.2 VR6 benzina da 238 CV, per poi salire col V8 4.2 da 330 CV, col nuovo diesel V10 5.0 da 309 CV e chiudere col titanico W12 6.0 da 414 CV, tutti proposti di serie (tranne i V6) con trazione integrale 4motion e cambi a 6 rapporti manuali o Tiptronic tipo Porsche.
Proposta con carrozzeria normale o a passo lungo, la Phaeton rispetta i rigorosi parametri imposti da Piech, e nella versione a dodici cilindri sfoggia tempi in pista da sportiva di razza: potrebbe anche superare i 300 orari se, come da tradizione tedesca, la velocità non fosse limitata elettronicamente a 250 km/h.
Impegnativi anche i prezzi di listino, che andavano dai 67.000 euro della 3.0 TDI ai quasi 160.000 della 6.0 a passo lungo, il che ne faceva essenzialmente una vettura da top manager, benchè fossero prezzi (bisogna dire) inferiori alla diretta concorrenza: la coeva Mercedes Classe S costava quasi 20.000 euro in più.
Ma, va da se, a “certi livelli” cosa sono ventimila cucuzze al cospetto di un blasone?
Ben poca cosa, e Piech lo scopre a sue spese: la Phaeton, la berlina perfetta, discreta ed impeccabile, si dimostra un fiasco fin dall’inizio. Vuoi perché ci si è voluti giocare a tutti i costi la carta dell’understatement costruendo una vettura perfetta sotto il punto di vista della tecnologia e delle finiture ma dall’estetica classica e sobria, che però la rendeva, agli occhi inesperti, niente di più che una Passat un po’ appesantita dopo una scopracciata di crauti.
Così appare presto evidente che i timori di progettisti e uomini del marketing VW non erano campati in aria e, anche per via del nuovo stabilimento ipertecnologico, la Phaeton comincia a rappresentare una perdita secca per la Casa, calcolata in 28.000 euro per ogni esemplare prodotto.
Fu così che, a fronte di poco più di 84.000 esemplari prodotti dal 2002 al 2014 (quando la Casa prevedeva una produzione di almeno 25.000 esemplari all’anno) la Phaeton oggi compare al terzo posto nella poco invidiabile classifica mondiale delle auto che hanno fatto perdere più soldi alla casa produttrice (ben 1,99 miliardi di euro), subito dopo la disastrosa Fiat Stilo (al secondo posto con 2,10 miliardi di euro bruciati) e a sua maestà la Smart Fortwo (3,35 miliardi persi dalla “povera” Mercedes).
Eppure, lungo il corso della sua breve e sfigata vita, la VW non si è disinteressata alla Phaeton, costantemente aggiornata negli allestimenti, nelle motorizzazioni e addirittura oggetti di un moderato face lifting che le ha permesso comunque di durare sul mercato relativamente a lungo, a dispetto della limitata produzione. Ciò è avvenuto essenzialmente grazie al mercato cinese, da sempre molto ben disposto verso i prodotti della Casa di Wolfsburg, tanto che attualmente è costruita e venduta in loco quella che può essere definita una vera e propria erede della Phaeton, la “Phideon”, ammiraglia che noi, probabilmente, per ovvi motivi non conosceremo mai dal vivo.
Quanto alla magnifica fabbrica da 187 milioni di euro concepita per la povera Phaeton, è stata attualmente riconvertita in senso “green”, e si occupa dell’assemblaggio dei modelli elettrici del gruppo.
Come per la Phaeton, il pubblico si può divertire seguendo le fasi della costruzione della ID.3.
Ammesso che ci si trovi qualcosa di divertente.
Antonio Cabras | Milano, 20 gennaio 2020.