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Un proiettile calibro RS 002 – Superposter
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Audi RS002

Un proiettile calibro RS 002

Nel 1986, il circo rallystico aveva raggiunto il suo apice indiscusso di popolarità e di follia. Le Gruppo B erano vetture esasperate, che garantivano uno spettacolo senza precedenti ad un prezzo altissimo: quello di mettere a repentaglio l’incolumità dei piloti e del pubblico. Alla fine di quella tormentata stagione, giunse il momento per i vertici FISA di sedersi al tavolo e tirare le somme. In Portogallo la RS200 di Joaquim Santos travolse il pubblico, uccidendo tre spettatori e ferendone undici, in Corsica Henri Toivonen e Sergio Cresto finirono in una scarpata con la loro Delta S4, che prese fuoco senza lasciargli alcuna via di scampo. L’anno precedente, le strade dell’isola erano state fatali per Attilio Bettega, che perse la vita in un tragico schianto a bordo della sua 037. Era decisamente troppo: il baraccone non poteva più andare avanti in questo modo. Il Gruppo B venne messo al bando lasciando il passo al nuovo Gruppo A, composto da vetture legate alla produzione di serie, con potenze limitate. Era l’inizio dell’epoca d’oro della Lancia, che con la Delta 4WD prima e l’Integrale dopo, avrebbe vinto tutto negli anni a . 

Assieme al Gruppo B andò in fumo il sogno di una categoria ancora più estrema, destinata a collocarsi un gradino più in alto nella scala delle mostruosità su ruote: il temibile Gruppo S. Nonostante gli studi avanzati e le ingenti risorse già impiegate, quei prototipi che avrebbero dovuto rappresentare la punta di diamante del rallysmo mondiale vennero uccisi sul nascere. La nuova categoria era stata concepita per stimolare l’ingresso di un maggior numero di Case all’interno del panorama dei rally, che sempre di più stava dimostrandosi un’ottima cassa di risonanza a livello pubblicitario. Per questo, ai fini dell’omologazione si era deciso di abbattere la soglia dei 200 esemplari stradali, che aveva rappresentato una barriera insormontabile per quei produttori impossibilitati a caricarsi sulle spalle un rischio bello grosso: quello di ritrovarsi il garage pieno di costose giacenze che nessuno voleva acquistare. Per far correre una Gruppo S bastava assemblare 10 esemplari. 

Audi fu una delle prime a buttarsi nel progetto. Il marchio di Ingolstadt che negli anni precedenti aveva portato la trazione integrale sul palcoscenico internazionale delle competizioni, era alla disperata ricerca di una vettura capace di riportare i quattro anelli ai vertici del campionato, dopo i deludenti risultati che stava ottenendo il team nel mondiale. Per prima cosa, era necessario sviluppare un motore centrale. Il vantaggio di questa soluzione appariva evidente, ed era un punto imprescindibile per tenere testa agli avversari, o perlomeno per combatterli ad armi pari. Il primo prototipo venne realizzato nel 1985, quando era ormai chiaro che la Sport Quattro non poteva reggere il passo della 205 T16. I test non potevano essere effettuati in Germania: a casa propria la vettura avrebbe sicuramente attirato l’attenzione dei giornalisti, compromettendo la riservatezza del progetto. 

L’arma segreta venne quindi spedita a Zlín, in quella Cecoslovacchia dall’altra parte della Cortina di ferro, lontana da occhi indiscreti. La macchina, che a primo impatto poteva facilmente essere confusa per una Sport Quattro, ad un’analisi più attenta era riconoscibile per via delle prese d’aria di raffreddamento sui lati. Grazie alla migliore distribuzione dei pesi e all’inedito telaio a traliccio, la nuova creazione risultò da subito essere più maneggevole e veloce nelle curve strette, vero tallone d’Achille della sua progenitrice. Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, arrivò il dietro front della Volkswagen. La dirigenza vedeva lo sviluppo di un’auto a motore centrale come una prova d’inferiorità delle proprie vetture, che avrebbe compromesso l’immagine del gruppo, ripercuotendosi negativamente sulle vendite. Ben presto furono imposte delle direttive volte a bloccare lo sviluppo del progetto e il prototipo finì smantellato. Non tutto venne gettato all’aria però, e in gran segreto alcuni uomini Audi cominciarono a lavorare su un nuovo studio, quello che da lì a poco avrebbe partorito un proiettile chiamato RS 002. 

Nonostante la trazione integrale, la RS 002 non sembrava affatto un’auto da rally: la sua forma affusolata, la scarsa altezza dal suolo e l’enorme alettone posteriore la rendevano molto più simile a un prototipo per correre sulla pista di Le Mans, piuttosto che sulle strade sconnesse dell’Acropoli. La carrozzeria in fibra di vetro, kevlar e carbonio era leggerissima e limitava il peso della vettura a 750 chili. Sotto al cofano trovava posto una versione rivisitata del 2.1 cinque cilindri montato sulla Sport Quattro, che grazie alla sovralimentazione KKK era in grado di erogare una potenza sconsiderata, variabile fra i 700 e i 1000 cavalli. La macchina, volava da zero a duecento in poco meno di dieci secondi e a continuava a spingere fino ai trecento chilometri orari: cifre che ancora oggi fanno impressione.  

Che fine ha fatto quest’opera scellerata e così terribilmente bella? Ufficialmente pare che siano stati costruiti due esemplari, ma si vocifera che ne fosse esistito un terzo assemblato a insaputa di Ferdinand Piëch. Oggi, l’unico sopravvissuto è conservato nel museo Audi. Ha fatto la sua prima apparizione in pubblico al festival ADAC Eifel Rallye, tenutosi a Daun nel 2016. Al volante era seduto Walter Röhrl, che finalmente è riuscito a guidarla, trent’anni dopo la vanificazione di un sogno tanto folle quanto affascinante: quello delle Gruppo S. 

Alessandro Giurelli | Roma, 25 marzo 2020.


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