Benzina e Bushido: i cartoni giapponesi sui motori anni ’70 – ’80.
Go Go Go, Mach Cinque…. Auto veloce, vince la corsa…….
Con questo incipit apparentemente demenziale voglio introdurre un argomento di primaria importanza: dove affondano le radici della nostra passione automobilistica? Nel mio caso, fu un attacco concentrico, favorito da un periodo – la prima metà degli anni ottanta – in cui l’auto viveva un periodo di ripresa, l’innovazione tecnologica e stilistica era senza sosta, il rally era quasi più seguito della Formula 1, insomma, mettici quei fattori, un nonno ex collaudatore Fiat, un padre che per non sapere che altro fare ti riempie camera di modellini Burago e Polistil…. Diciamo che era destino.
L’attacco psicologico concentrico venne sferrato anche via etere, grazie a quei cartoni giapponesi di ogni foggia e risma di cui la miriade di nuovi canali privati avevano fatto incetta. In mezzo a questi, che erano prodotti ancora a basso costo, c’era davvero di tutto. La maggior parte erano anticaglie vecchie anche di 15 anni, ma molti di essi si sarebbero rivelati dei veri e propri cult (ad esempio L’Uomo Tigre), altri dei miti immortali (Lupin III), altri ancora dei capolavori che solo a ripensarci ci scappa la lacrimona (Conan il ragazzo del futuro di Hayao Miyazaki, non so se….)
Per il resto non mancava nulla, soprattutto l’argomento “robot” era saturo di ogni ben – o di ogni mal – di Dio (ma a parte Jeeg Robot, l’esilarante Daitarn III, e Daltanious – più che altro per la stupenda sigla – il resto, a guardarlo oggi, è più o meno da sbadiglio). E poi c’era un altro sottogenere, i cartoni sportivi (snella lingua del Sol Levante spokon, letteralmente “tenacia sportiva”), che copriva tutte le discipline: pallavolo, tennis, calcio, boxe, golf….. e all’interno di essi un sotto – sotto genere: i cartoni automobilistici.
Che non erano tutti capolavori, intendiamoci: talvolta si avvertiva la certezza che i disegnatori di queste serie non avessero, per usare un eufemismo, una gran dimestichezza con le automobili. Senza eufemismi, era palese che non gliene fregasse una beneamata fonchia di nulla, che non avessero assolutamente la passione e che per loro disegnare un’auto, un robot o un frullatore Minipimer Moulinex fosse esattamente la stessa cosa, atta a mettere insieme lo stipendio e nulla più. Fatto sta che, quando ero più piccolo e meno rompicojoni di adesso (nzomma, più o meno) questi cartoni rappresentavano la completa realizzazione dei mio io. Capitava di regola che i miei fratelli e cugini, perché la TV si guardava spesso e volentieri in gruppi di fregnoni in numero mai inferiore a 5, si facessero due palle tante, ma alla fine si trovava l’accordo: loro subivano il cartone automobilistico, io sopportavo quella grandissima palla di Candy Candy, adorata dalle mie cugine, e gli anni ottanta volarono in concordia e letizia.
Ma ciancio alle bande (cit.) e passiamo ad una rapida e ragionata elencazione dei capisaldi dello spokon motoristico, alcuni dei quali hanno lasciato un segno indelebile, mentre di altri ricordo bene solo la sigla, e di altri ancora nemmeno quella (capitava anche che facesse un po’ schifo, specie se era di Nico Fidenco. Scusami Nico, qualcuno doveva pur dirtelo).
SUPERAUTO MACH 5 (Tatsunoko, 1967). Stabiliamo subito che i rasoi Gillette non c’entrano, in questo caso specifico, una ricca fava. Dietro questo titolo altisonante si cela quello che dovrebbe essere, a quanto ne so, il primissimo spokon automobilistico, nonché uno dei primissimi anime giapponesi ad essere esportato all’estero, addirittura riscuotendo incredibile fortuna negli USA (ma ci tornerò più tardi). Aiutato da una sigla meravigliosa degli immensi Cavalieri del Re di cui ho divorato per anni il 33 giri (sì, avevo il mangiadischi portatile, embè?) nella metà degli anni ’80 era un cartone visibilmente datato (più di 15 anni!) e ciò si notava dalle animazioni e dalla qualità dei disegni, semplicemente pietosa, come il doppiaggio italiano che cercava alla bell’è meglio di ovviare alla fissità del labiale dei personaggi, che rimanevano spesso paralizzati a bocca aperta come le prime serie dell’Orso Yoghi. Però la trama, quella sì, era avvincente, con dovizia di velocità, incidenti, esplosioni, e ovviamente tantissimi morti. Violenza inaudita come solo un anime di fine anni sessanta poteva vantare, insomma, e una macchina (la Mach 5 citata anche in apertura dell’articolo, appunto) veramente bellissima, guidata da Go, un ragazzino con sopracciglioni, lunghe ciglia femminee e foulard (?) irritante come pochi, giusto e leale fino a farti venire il diabete mellito, che avendo rifiutato di perdere una gara dietro pagamento di somma di denaro da parte di certi delinquenti, passerà praticamente tutte le puntate a vincere le gare nonostante i sabotaggi, le trappole e le slealtà perpetrate dai delinquenti stessi. Molto avvincente, in America è conosciuto come “Speed Racer”, e ha avuto l’onore – si fa per dire – di essere citato anche in una puntata de “I Griffin”, per poi arrivare alla baracconata suprema: il film live action girato e prodotto dai fratelli Wachowski (quelli della trilogia di Matrix): costosissimo, sfarzoso, e disastroso al botteghino. Nota a margine: i fratelli hanno entrambi cambiato sesso, diventando le sorelle Wachowski, ma non ricordo se prima o dopo il sopracitato flop.
GRAN PRIX ILCAMPIONISSIMO (Toei, 1977). Tratta dal manga di Kougo Hotomi ma disegnata con molta meno perizia, è una serie relativamente lunga (44 episodi) e, al netto delle solite menate sui drammi interiori del figaccione protagonista, delle immancabili sofferenze psicologiche e fisiche CHE CI DEVONO ESSERE SEMPRE, pure piuttosto interessante. Racconta di un giovane, Takaya, che vede infrangersi il sogno di correre in Formula Uno a causa di un orrendo incidente che lo lascia in stato semi – comatoso. Ovviamente grazie alla sua nipponicissima tenacia, nonché ad un pilota professionista di nome Niki Lans – vi dice qualcosa? – che crede in lui tanto da insegnargli di tutto, arriverà infine a realizzare il suo sogno. Anime, si diceva, interessante in quanto sono tante le nozioni di meccanica e i dati reali sulle prestazioni di auto realmente esistenti che vengono citate lungo la serie, e diverse sono le automobili italiane che vi compaiono – vedi l’immancabile Lancia Strato’s – anche se non sempre disegnate con la massima fedeltà. Molte anche le comparsate di piloti realmente esistiti, sia pur con nomi storpiati. Nel complesso, uno dei migliori spokon sulle corse.
FALCO IL SUPERBOLIDE (Toei, 1976). Introdotta dalla sigla di Nico Fidenco, immancabilmente brutta, è praticamente un cartone di robot ma con le auto al posto dei robot. Anche i membri della scuderia Sayongi sono i tipici componenti dei robottoni, vestiti come fossero i piloti di Mazinga Z, e col protagonista figaccione (nel caso di specie, poco attraente rispetto alla media figaccionipponica che va da zero a Cavaliere dello Zodiaco) coadiuvato da comprimari tutti o più brutti di lui o affetti da obesità estrema. Il protagonista Ken Hayabusa (che vuol dire “falco pellegrino”, da qui il nome della versione italiana) guida la vettura numero 1 che si chiama per l’appunto Hayabusa, progettata dal padre ingegnere, morto accidentalmente durante lo sviluppo del motore. Ken aveva anche un fratello, morto pur’esso – e te pareva – in un incidente provocato dai cattivoni della scuderia avversaria, la Black Shadow (e mecojoni). Ovviamente non c’è bisogno di sottolineare che alla fine dei 21 episodi il bene trionferà, per il resto poco da segnalare tranne l’auto protagonista, l’Hayabusa Special, più simile ad un aereo che ad un’auto, con la particolarità dei motori intercambiabili. Negli anni ’90 è stato realizzato una sorta di quasi – remake più “adulto” e decisamente interessante e ben fatto chiamato “GPX Cyber Formula“, rimasto imperdonabilmente inedito da noi finché Italia Uno non ha deciso di trasmettere tutte le serie a notte fonda. Ovviamente, io c’ero.
SUPERCAR GATTIGER (Wako, 1977). Con un’idea spudoratamente presa da Falco il superbolide, Supercar Gattiger raggiunge un gran successo in Italia grazie anche alla sigla semi-disco dei Superobots che, con una diversa linea vocale, sarebbe stata un successo nelle discoteche italiane all’inizio degli anni ottanta (potete sentirla nel film Bianco Rosso e Verdone, durante la scena in cui Pasquale Ametrano dopo aver parcheggiato l’Alfasud entra nel bar della stazione di servizio). L’idea della commistione fra corse automobilistiche e robot qui viene portata all’estremo per via del fatto che le cinque auto della scuderia Kabuki in caso di pericolo possono unirsi in una sola auto (il Gattiger, appunto) esattamente come un Voltron qualunque. Ovviamente anche qui, come in Ken Fanco, c’è la malvagia scuderia avversaria dei Demoni Neri (al posto di Black Shadow, fantasia portami via eh!) e in ogni caso la serie è abbastanza divertente. Da segnalare il giocattolo del Gattiger, al tempo gran successo e oggi ricercatissimo dai collezionisti, e il fatto che fra i doppiatori figurino due nomi che di li a poco avrebbero formato un leggendario gruppo comico: Massimo Lopez ed Anna Marchesini!
A TUTTO GAS (Tatsunoko, 1984). Serie trasmessa su Italia 7 all’inizio degli anni novanta che ho adorato visceralmente, anche perché zeppa di nozioni tecniche sui motori (per quanto tragicamente sgarrate e semplificate nella traduzione in italiano, ovviamente pensata per un pubblico di lattanti) e incentrata su vetture sportive giapponesi (a parte una eroica Mini in una delle prime puntate) anni ’70 ed ’80 che non conoscevo minimamente perché non importate in Italia. Purtroppo anche in questo caso la traduzione italiana ha fatto una strage con le traduzioni, forse per motivi di copyright: passai anni a capire che macchina fosse la fantomatica “Jota 8” per poi realizzare si trattava della Toyota Sports 800. Altri modelli invece sono correttamente citati (es. RX7, Celica, CRX….) ma sempre senza citare la casa produttrice. Al netto di queste pirlate e dei nomi dei protagonisti orrendamente italianizzati (come da sigla del beneamato Jampi Daldello “Per Marco il motore, segreti non ha, di tutti è il migliore e vincere sa…”), una serie godibile e dai disegni, per il tempo, piuttosto curati. Imperdibile per chiunque sia patito dei modelli giapponesi di quegli anni, e sono tanti.
MOTORI IN PISTA (Studio Deen, 1988). Tratto dal manga “F” di Noboru Rokuda (quello di Gigi la Trottola), un cartoon motoristico decisamente atipico, le cui atmosfere umoristiche e goliardiche dei primi episodi si stemperano in un’atmosfera sempre più plumbea per via di avvenimenti fra il serio ed il tragico. Nel complesso, la serie è un vero capolavoro, sia come disegni ed animazioni (notevole la fedeltà di riproduzione delle automobili, fra cui la stupenda Alpina BMW di uno dei protagonisti) purtroppo rovinato quasi completamente da un adattamento scellerato, che non contento di cambiare i nomi dei personaggi, ha operato censure indiscriminate rendendo le trame degli episodi spesso inconcludenti quando non completamente incomprensibili, riuscendo a martoriare anche lo struggente e bellissimo finale (fecero una cosa del genere nell’ultima puntata di Rocky Joe: perché credere che i ragazzini non siano capaci di comprendere la morte? Perché? Perché?). Grazie ad Allah è stata recentemente messa in circolazione la versione integrale, completamente ridoppiata e senza tagli. Recuperatela se potete.
Antonio Cabras | Milano, 3 marzo 2020.