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I peggiori gadget della nostra vita – parte 2 – Superposter
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I peggiori gadget della nostra vita – parte 2

Il mio articolo della settimana scorsa sui gadget tamarri ed ingenui degli anni ’80 – ’90 ha suscitato uno scalpore che non mi aspettavo. Nella mia pagina Facebook è stata una gara sul filo della memoria fra chi aveva personalizzato la propria vettura con gli accessori e gli adesivi più tipici, e addirittura son comparsi un paio di esemplari (fra cui una Fiat Regata prima serie veramente epica) agghindati di ogni ben di Dio.

Di conseguenza, tanti sono stati i suggerimenti e altrettanti i ricordi personali nel frattempo intervenuti, che ho pensato di realizzare una seconda parte, o se preferite un compendio, una postilla, un’appendice…. ehm, ci siamo capiti, riguardanti altri must have di quell’epoca.

Andiamo ad incominciar!

LA MASCHERINA ANTERIORE COI FARI SUPPLEMENTARI INCORPORATI.

Ho scelto questo memorabile accessorio, fra i tanti, come soggetto per la mia immancabile vignetta. Non è un caso, e nemmeno la scelta dell’auto (una Tipo) lo è: mio zio, ai tempi, aveva una DGT con ogni sorta di optional possibile ed immaginabile (di serie, extraserie, ed aftermarket), e dovendo viaggiare spesso di notte per via del suo lavoro di medico, aveva pensato di rendersi più …visibile aggiungendo una ulteriore coppia di fari nella mascherina: il tutto era regolarmente in vendita negli autoricambi al tempo. In genere chi montava questo aggeggio collegava i fanali agli abbaglianti (così come aveva fatto lui), ma i più pignoli facevano aggiungere un interruttore apposito. Quella Tipo, dotata anche di fendinebbia di fabbrica, per un totale di sei fonti luminose, aveva un fascio di luce tale da fare la radiografia a chiunque incrociasse, o di far credere a tutti i galli del Nord Sardegna che era già sorto il sole. Ovviamente erano cose eroiche quanto totalmente irregolari, e la mascherina finì nella pattumiera non appena qualche solerte agente trovò qualcosa da ridire. Per me, un giorno luttuoso.

LA BOMBOLETTA PER ANNERIRE I FARI.

E passiamo con disinvoltura da un metodo per rendersi più visibili ad uno che rendeva quasi invisibili:  in tanti si ricorderanno delle dolorosissime contravvenzioni che la Polstrada elevava a chi, facendo uso di apposite bombolette messe in commercio da aziende senza scrupoli, aveva reso più grintosa la propria Golf annerendo i fanali posteriori. I benemeriti P.S., o i C.C., o chi per loro, per la verità non avevano tutti i torti: stop, indicatori di direzione e luci di posizione risultavano, dopo essere stati anneriti, molto meno visibili soprattutto nelle ore diurne. A che io sappia, la prima auto che di serie uscì coi suoi bravi fanali fumè fu la seconda serie dell’Audi Coupè B2, e diciamolo: erano una figata. Peccato che in quel caso i tecnici di Ingolstaad avessero provveduto a potenziare adeguatamente le lampadine in modo che la luminosità delle segnalazioni fosse la medesima dei modelli con fanaliera tradizionale. Nonostante le contavvenzioni fioccassero, in ogni caso la moda fu duratura e le case stesse adottarono i fari posteriori fumè almeno per le versioni sportive dei propri modelli d’attacco. Ma c’erano anche modelli i cui fari diventavano fumè col tempo, bastava guidare e lasciare fare al tempo: mi riferisco a certe Volvo o Mercedes a gasolio, quelle che hanno causato una pessima ed ingiusta fama di disastro ecologico ambulante ai motori diesel, tuttora dura a morire.

LA FETTUCCIA PER L?ELETTRICITA’ STATICA.

Più che fettuccia, feticcio. Una cosa veramente obbrobbriosa, quella striscia di plastica morbida, spesso con sopra impresso un fulmine, che nelle intenzioni dei produttori doveva preservare gli occupanti da quelle fastidiose “scosse” all’atto di salire o scendere dal veicolo. Nella mia ingenuità di moccioso, mi sono sempre chiesto se fosse possibile che esistessero persone più “elettriche” di altre: mia madre, a solo lei, prendeva sempre la scossa sulla sua A112 e dava puntualmente la colpa alla macchina. Ma’, ma non è che sei te che hai le chiappe elettrostatiche? Niente da fare, insisteva per comprare la fettuccia, ma ha desistito dalla cosa in seguito ad un mio sciopero della fame che Pannella me spiccia casa.

L’ADESIVO OVALE “ITALIA”.

Okay, qui entriamo in territori romantici. Una volta questi adesivi erano obbligatori per tutte le auto che varcavano il confine italiano, obbligo ovviamente caduto assieme all’apertura delle frontiere in seguito agli accordi di Shengen (col clima che c’è ora quel’obbligo prima o poi potrebbe tornare, nel dubbio state pronti…) ma era tanto diffuso nelle vetture circolanti che non potevi fare a meno di chiederti cosa andava a fare all’estero tutta quella gente. Anche mio nonno lo applicò nel baule della sua 127, nonostante quella macchina non sia mai uscita dalla provincia di Sassari per tutta la sua vita. Ovviamente c’era anche la bandierina tricolore adesiva, che la rendeva una macchina sensibilmente patriottica.

IL SANTINO CALAMITATO.

“Non correre, pensa a me” (con la foto della famigliola): di solito campeggiavano nelle plance di nuda lamiera delle varie 500, 600 e 1100, solitari, in coppia o anche a gruppi di tre o quattro per gli automobilisti molto devoti, che al fianco della famigliola non disdegnavano la compagnia visiva di San Cristoforo, Sant’Antonio, San Francesco et similia, la cui vigilanza non era disdegnata nemmeno per quei tragitti che portavano in zone periferiche dove i pneumatici sono disposti in orizzontale per cingere i falò ove indefesse lavoratrici erano solite scaldarsi. Quando i cruscotti hanno cominciato a rivestirsi di plastica, i santini calamitati hanno continuato a vivere applicati sul bordo superiore della portiera o sui montanti, che sui modelli meno costosi erano ancora “nudi”. Quando anche quelli hanno cominciato a sparire, per i santini non c’è stato scampo: ricordo mio padre che cercava disperatamente una nicchia di lamiera per collocare il San Cristoforo proveniente dalla Ritmo sulla nuova Giulietta. Dovette desistere.

IL COPRISEDILE CON LE PALLINE DI LEGNO.

Non chiedetemi come si chiamasse, avete capito ugualmente cosa intendo. Chi lo vendeva ne vantava il potere massaggiante, o rilassante, o whatever. Se ne vendevano a tonnellate, e Iddìo solo sa quanto fossero scomodi. Una volta salìì su una macchina che ne era dotata (una 127, tanto per cambiare!) e mi sono sentito un eretico torturato nelle segrete dalla Santa Inquisizione: un dolore acuto e lancinante. Il proprietario dell’auto mi guardava sogghignante come per dire “Tutto questo dolore un giorno ti sarà utile!” ma più probabilmente pensava “Che pappamolle di un rincoglionito”. Molto meglio le ustioni di terzo grado causate dal sedile sivestito di skai, fidatevi.

IL FASCIONE POSTERIORE CATARIFRANGENTE.

La prima auto a proporla di serie, a che io ricordi, fu la Innocenti Mille del 1980: una mirabile intuizione di Marcello Gandini che si trovava a dover ringiovanire un suo piccolo capolavoro di sei anni prima, la Mini 90 – 120 del 1974. Il restyling, e soprattutto quella fascia di plastica con l’enorme scritta “Innocenti” e la targa traslata in basso sullo scudo paraurti venne così bene da creare proseliti, specie in Autobianchi (ove la stessa soluzione venne cop….ehm ripresa sulla settima serie della A112) e le aziende del settore non stettero certo con le mani in mano, mettendo in commercio fascioni per un po’ tutti i modelli, specie tedeschi. All’inizio degli anni ottanta, non esisteva sulla terra che una Golf col suo bravo body kit Lester mantenesse la targa posteriore fra i fanali. Sarebbe stato squalificante.

LO SPECCHIETTINO SUPPLEMENTARE PER GLI ANGOLI MORTI.

Una sola cosa: mio padre lo aveva messo nella BX, e io in retromarcia presi in pieno un palo distruggendo l’angolo posteriore destro del paraurti.

Ero pirla io, o era inutile lui?

Il dibattito ancora prosegue.

Antonio Cabras | Milano, 30 gennaio 2020.


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