Utilitarie a chi?
In principio, manco a dirlo, fu la Mini.
La piccola utilitaria prodigio di Alec Issigonis, infatti, oltre ad aver bellamente rivoluzionato il concetto stesso di automobile grazie alla brillante e coraggiosa intuizione del suo progettista (che da lì in poi ne imbroccò ben poche, bisogna pur dirlo) non si rivelò soltanto una formidabile auto da corsa diventando iniziatrice della categoria “piccole ma incazzate” che troverà il proprio zenith omicida fra gli anni ’80 e i ’90, ma scatenò nella clientela più esigente il desiderio di renderla una vera e propria limousine in miniatura allestendola in modo sfarzoso ed opulento, con abuso di pelle, moquette, radica di noce, impianti radio financo dannosi per via delle ridotte dimensioni dell’abitacolo, o addirittura frigobar e televisione.
Ciò era quasi la norma per un popolo che, come prassi, quando fabbricava un’automobile preferiva abbattere foreste di noci e mandrie intere di bovini per gli interni, piuttosto che progettare un impianto elettrico che non ti lasciasse per strada due giorni su tre. Così, preparatori come Radford o Wood & Pickett fecero fortuna rendendo le Mini delle piccole Bentley (o, per la clientela sportiva, delle Aston Martin tascabili). Radford, che aveva “confezionato” anche le Mini Cooper dei Beatles, compresa quella dotata di portellone posteriore per Ringo Starr, non poneva limiti alle personalizzazioni, e le sue creazioni erano elaborate sia esteticamente con vernici metallizzate e vetri oscurati, sia internamente con pellami pregiati, strumentazioni tipo Jaguar e ogni sorta di accessorio elettrico, e ovviamente anche nella meccanica (che doveva essere elaborata per digerire lo spaventoso aumento di peso dovuto a tutte le carabattole montate.
Anche quella volta, gli inglesi furono precursori: come abbiano fatto a tramontare così repentinamente come costruttori, è materia da astrologi. O da scrittori horror.
Fatto sta che, fra gli anni ottanta e i novanta, vale a dire una volta finito il tempo dell’austerity che impediva una completa realizzazione della propria vanità, le Case costruttrici (non tutte, diciamo che i tedeschi rimasero accuratamente fuori da queste frivolezze) cominciarono improvvisamente a rispolverare il concetto di “piccola di lusso” riproponendo i concetti delle Mini elaborate, ma stavolta in veste ufficiale. Rese sofisticate anche nell’estetica nonché (in genere) ben fornite anche sul comparto della cavalleria, avevano interni opulenti e costavano solitamente un botto: cosa che ovviamente ne limitò la diffusione. Le ammiravo tantissimo e credo fosse una vera goduria, per i proprietari, trovarsi fianco a fianco con una Mercedes dal costo triplo per cui il proprietario aveva dovuto pagare a parte anche il contagiri.
Ecco dunque una piccola ma puntuale rassegna delle più rappresentative “piccole opulente” di quella decade.
AUSTIN METRO VANDEN PLAS 500:
In Inghilterra “Vanden Plas” era, fino agli anni ’90, sinonimo di allestimento completo e super rifinito: si trattava di uno dei millemila marchi albionici poi assorbiti dalla British Leyland e nel tempo utilizzato di fatto come una griffe (come “Ghia” per la Ford, insomma). Col marchio Vanden Plas si era visto un pò di tutto, anche una rivisitazione della Austin Allegro con interni sontuosi dotati anche di tavolini di radica a scomparsa negli schienali anteriori a mò di Bentley, ma sciaguratamente anche di una enorme mascherina trapezoidale che ne rendeva l’aspetto, se possibile, ancor più agghiacciante di quello del modello di serie.
Imparata la lezione, la versione top della Metro, lanciata nel 1982, si presentava piuttosto sobriamente all’esterno (giusto qualche cromatura in più e l’immancabile vernice metallizzata) quanto all’interno (moquette pregiata, sedili in velluto, listelli di legno sulle portiere, volante in pelle). La Metro, che aveva l’ingrato – e ovviamente fallito – compito di sostituire la Mini, non era quel che si dice un’auto capace di fare innamorare con la propria personalità, ma almeno nei primi anni fu piuttosto apprezzata per le sue doti di economia. Così nel 1984, per festeggiare il mezzo milione di esemplari prodotti, venne lanciata una Vanden Plas in serie limitata di 500 esemplari, denominata “VP 500”, dotata di cerchi in lega, interni in pelle color crema, stereo mangianastri, e una bottiglia di Moet & Chandon compresa nel prezzo (giuro!)
Dotata, come la Vanden normale, del classico motore 1275 cm3 da 62 cavalli, la VP 500 può definirsi l’iniziatrice della specie. Peraltro, l’allestimento Vanden Plas venne proposto anche con la seconda serie della Metro, guadagnando gli inevitabili accessori elettrici (vetri e chiusure porte, che quando funzionavano e SE funzionavano facevano la differenza), degli ampi listelli in vera radica di noce, nonché il più potente motore della MG da 71 cavalli e persino una verniciatura metallizzata bicolore. Nonostante i sedili in pelle fossero un optional (piuttosto diffuso, in verità), trovarne una oggi significa avere una piccola Rolls dall’estetica in verità un po’ deprimente. Ma fa parte del gioco.
RENAULT 5 BACCARA – LIMITED:
Ora, non chiedetemi perché la Renault quando importava una serie speciale in Italia doveva per forza cambiare nome: la R5 Laureate divenne Le Car, la Campus divenne Parisienne…. Non fece eccezione la Baccara del 1987, basata sulla versione “top” GTX 1.7, che qui da noi divenne “Limited” ricevendo all’uopo il più abbordabile motore 1.4 cm3 in onore della voracità del nostro fisco. La Limited italiana, come la Baccara francese (che grazie ai suoi 90 cv filava a 180 km/h) fu un successo, tanto che durò nei listini quattro anni: all’allestimento già completo della GTX (vetri elettrici, chiusura centralizzata con telecomando, paraurti in tinta, fendinebbia, contagiri…) la Baccara aggiungeva esclusive tinte metallizzate, cerchi in lega, interni completamente in pelle beige compreso soffietto cambio e corona volante (lo stesso della GT Turbo), telecomando porte, e una chicca ripresa anche dalle omonime versioni top della R25: una sacca, alloggiata sotto la cappelliera, per riporre gli abiti di ricambio (smoking, necessariamente) senza sgualcirli.
La formula venne ripetuta tale e quale con l’erede della R5, la Clio: ulteriormente migliorata come allestimento (erano ora di serie anche l’aria condizionata e gli specchietti elettrici), come potenza (il motore passava a 1.8 cm3 per 95 CV) e come finiture (listelli e pomello cambio in radica di noce) la Clio Baccara permetteva di non sfigurare al cospetto della “solita” 16V, pur essendo solo veloce e non dannatamente veloce come la plurivalvole.
PEUGEOT 205 GENTRY:
Okay, in teoria ci sarebbe anche la 1.9 GTI “Griffe”, ma quella altro non era che una GTI dotata di tutti gli optional a listino e di un unico colore esclusivo, mentre la meccanica restava quella (potenzialmente letale) di serie. La “Gentry” del 1991 era, invece, pur sempre derivata dalla GTI più potente, ma il suo motore, che da 130 CV veniva depotenziato a 105 (cioè la potenza della1.6 GTI prima serie) per esaltare elasticità e fluidità di marcia, la fa rientrare esattamente nella categoria della coeva Clio Baccara.
Mentre all’esterno le appendici aerodinamiche tipiche della GTI venivano ingentilite da vernici metallizzate (beige o verde), listelli cromati nei paraurti e cerchi in lega tipo “405”, l’interno proponeva un armonia di pelle e plastiche sui toni del beige, dei generosi listelli in radica di noce sulle portiere, il climatizzatore, il tetto apribile e addirittura l’impianto ABS (denominato dalla Peugeot “ABR”, perché i francesi devono sempre differenziarsi a costo di irritare). E se vi state chiedendo se le prestazioni fossero mortificate dal calo di potenza unito all’aumento del peso, la Peugeot magnanima aveva fornito la Gentry di un cambio a rapporti più corti per guadagnare preziosi secondi in accelerazione. Perché arrivare in ritardo fa chic, ma solo fino ad un certo punto.
FIAT UNO SUITE:
Ebbene, ci ha provato anche la Fiat, ma come al solito a modo suo: la serie “Suite” aveva caratterizzato fino a quel momento le più grandi Tipo e Tempra, che sfoggiavano un allestimento di serie notevole (sedili in cuoio, climatizzatore, cerchi in lega). Lanciando la Uno Suite basata sulla 70 SX, chissà perché in Fiat devono essersi defecati in mano, e hanno deciso di proporre a pagamento gli accessori più qualificanti (sedili in pelle, cerchi in lega, tettuccio apribile) facendo in modo che la Suite, a parte il condizionatore di serie, la strumentazione con check control e il volante in pelle tipo Turbo I.E., non fosse praticamente distinguibile dalla SX di serie. Occasione mancata, anche se una Suite con tutti gli optional era una vera piccola raffinata, col plus dell’anonimato estetico.
AUTOBIANCHI Y10 EGO:
Per un modello che già alla nascita si proponeva come baby ammiraglia, con finiture di lusso ed optionals inusitati quali i compassi elettrici dei finestrini posteriori, una versione superlusso poteva apparire quasi fuori luogo. E invece, sulla base della 1.1 LX i.e. seconda serie, ecco una delle utilitarie più arroganti della sua epoca: vernice nera micallizzata, cerchi in lega diamantati, fendinebbia, clima, e i mitici rivestimenti in pregiata pelle Frau estesi su sedili, porte, sottoplancia, volante, cuffia e pomello cambio. Probabilmente avrebbero rivestito di pelle Frau anche i vetri, se non ci fossero stati problemi di visibilità non risolvibili. Erano optional, purtroppo, la strumentazione completa (quella di serie, nel contesto, faceva veramente miseria) e il tetto apribile in cristallo, mentre curiosamente i paraurti erano in plastica grezza invece che parzialmente in tinta come sulle LX normali. Rivesti tutto di pelle pregiatissima per poi risparmiare 300 grammi di vernice per i paraurti. Tipico Fiat.
CITROEN AX CORDOUE:
Una versione della piccola Citroen che ha fatto tanto successo, ma tanto, che…. non si trova nemmeno una foto in rete. Per cui l’unico modo per sapere com’era fatta, era studiarmi un esemplare circolante dalle mie parti (oggi ovviamente scomparso) e realizzare che si trattava di un oggettino veramente carino: estetica sportiva tipo GTI, cerchi in lega e vernice verde metallizzato, e ovviamente il consueto allestimento pregiato (pelle, clima, tetto apribile). Motore 1.4 da 75 cavalli, piuttosto brillante su una macchina che pesava quanto una lattina di Fanta, per un’automobilina molto caruccia di cui il pubblico praticamente non si accorse, sarà che nel 1992 l’AX aveva già i suoi annetti. Peccato.
MARUTI – SUZUKI 800 SUPER DE LUXE:
Okay, qui sto scherzando ma neanche tanto: la Maruti Suzuki 800, importata in Italia all’inizio degli anni ’90 ed oggi ricordata quasi come una barzelletta (un’automobile costruita in India basata sulla Suzuki Alto di inizio anni ’80, ahahah!) proponeva di serie, nella versione Super De Luxe, gli interni in pelle e l’aria condizionata: prima assoluta nella categoria superutilitarie. Una scelta quantomai originale, soprattutto considerando che accessori molto più cheap (i vetri elettrici, i paracolpi laterali, e addirittura le borchie integrali di plastica) erano a pagamento. E, anche se sedili a parte la qualità degli interni era di una povertà raggelante e la stessa pelle, negli anni, si rivelava di pessima fattura (perdeva il colore….) la Maruti Suzuki fece sensazione, stupì anche quelli di Quattroruote e fece segnare per i primi due anni confortanti risultati di vendite anche in Italia.
Al tempo, le barzellette erano ancora sulle Skoda.
Come cambia il mondo.
Antonio Cabras | Milano, 27 gennaio 2020.