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Non sempre le parole fanno la differenza: la guerra all’ultimo slogan – Superposter
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Non sempre le parole fanno la differenza: la guerra all’ultimo slogan

Con la parola slogan si indica in gergo pubblicitario il motto creato per caratterizzare un prodotto e distinguerlo dai propri competitor, per sottolinearne le qualità e i punti di forza al fine di posizionarlo strategicamente nella mente dei consumatori. In questo senso deve adempiere ad una funzione semplice solo all’apparenza: facilitare il ricordo del prodotto.

In Italia lo slogan arriva ufficialmente nel primo dopoguerra, quando la fabbrica Marelli irrompe nel mercato con il motto: “Magneti Marelli è la batteria che dura di più”. Una volta rotto il ghiaccio e dimostrate le potenzialità intrinseche dello strumento, diverse formule cominciano a far breccia nelle strategie di comunicazione delle principali aziende del Belpaese.

In breve tempo, lo slogan diventa il cavallo di battaglia di uno dei settori maggiormente in crescita: quello dell’industria automobilistica. Inizialmente si tratta di semplici frasi a effetto, orientate alla vendita pura. In questo senso Fiat fa leva sul prezzo competitivo della sua ultima utilitaria, la 500, che viene etichettata come la “vettura alla portata di tutti”; Alfa Romeo nel presentare la Giulia sottolinea le sue doti di robustezza, definendola come “l’automobile che ha la sicurezza della durata, prima scelta delle famiglie e delle forze dell’ordine”. Lancia, da parte sua mostra la Flavia come la macchina adatta a tutte le stagioni.

Nel tempo lo slogan si raffina e si evolve. La diffusione in massa della televisione, a partire dagli anni sessanta e per tutta la durata dei settanta, trasforma le immagini statiche in qualcosa di più tangibile: il movimento. Anche e soprattutto le reclami risentono di questo cambiamento: accanto ai sempreverdi manifesti attaccati lungo le strade e nelle metropolitane, fanno la loro comparsa volti di personaggi più o meno famosi, mascotte che pronunciano frasi ad effetto sull’ultimo prodotto lanciato sul mercato. Sono gli anni del Carosello, degli sketch per la famiglia del boom economico.

Ma è nel decennio successivo che la pubblicità inizia ad essere plasmata secondo quelle caratteristiche che le riconosciamo tutt’ora. I testimonial assumono un ruolo chiave, fino a diventare il cardine intorno al quale ruota l’intero messaggio promozionale. Progressivamente si assiste a un ridimensionamento dello slogan, che passa in secondo piano a vantaggio degli attori. L’importanza non risiede più tanto in cosa si dice, quanto piuttosto in chi lo dice, o nel modo in cui lo dice.

All’interno del panorama automobilistico, la massima espressione di questa tendenza viene dall’Autobianchi, che non esita a ingaggiare alcuni fra i personaggi di spicco del momento per sponsorizzare l’ultima arrivata, la Y10. Da Sergio Castellitto a Ruud Gullit, passando per Stefania Sandrelli, tutti possono diventare celebrità se nel garage hanno la piccola utilitaria che piace alla gente che piace.

Parallelamente comincia a prender piede quel fenomeno del product placement tanto in voga nei giorni nostri. E mentre le note dei Gazebo accompagnano l’entrata spavalda di Jerry Calà a Cortina, su una scintillante Mini De Tomaso in Vacanze di Natale ‘83, in Yuppies un prorompente Ezio Greggio sorseggia cognac a bordo della sua Y10 Turbo (con tanto di tachimetro digitale, optional costosissimo e rarissimo anche all’epoca).

Oggi gli uffici marketing delle principali case automobilistiche investono cifre stratosferiche nella pubblicità, con lo scopo di rafforzare l’immagine del nuovo modello secondo una vera e propria guerra, in quella che non sempre è una strategia che ripaga. Ricorderete tutti lo spot della Stilo che vedeva come protagonisti assoluti i due rampolli di casa Ferrari: Michael Schumacher e Rubens Barrichello. Nonostante il considerevole sforzo per promuovere l’immagine della vettura, i numeri evidenziano che a distanza di anni, gli investimenti non sono stati sufficienti ad arginare le perdite subite dalla Fiat, che si stimano intorno ai 2 miliardi di euro.

Ciò a testimonianza del fatto, che per quanto una trovata pubblicitaria possa apparire valida, oppure capace di influenzare le scelte decisionali dei compratori, nel medio-lungo termine è sempre la bontà del prodotto a fare la differenza tra successo e flop: d’altronde non c’è migliore propaganda della soddisfazione del cliente.

Non sempre la qualità è sufficiente però. Guardiamo ad esempio il caso della nuova Giulia: nonostante le sue doti indiscutibili, non è riuscita a raccogliere i consensi che meritava. Ultimamente la vettura è finita al centro dell’attenzione per via della pubblicità ricavata dalle scene dell’ultima produzione Netflix, il film 6 Underground. Protagonista è un inedito esemplare verde acido che sfreccia fra le vie del centro storico di Firenze, seminando arroganza e scompiglio, come nella migliore delle tradizioni della casa del Biscione.

Lo spot ha sollevato le critiche di numerose associazioni (anch’esse verdi e senz’altro più acide della Giulia), che hanno fatto appello affinché venisse censurato lo spot, secondo un’iniziativa che ha il sapore del finto perbenismo di fine anno, piuttosto che di una motivazione concreta per combattere i crimini stradali.

In un’epoca di SUV, crossover, mezzi SUV e mezzi crossover, rimane la speranza che l’impietoso detto “nel bene o nel male, l’importante è che se ne parli”, possa aiutare, per una volta davvero, a rilanciare l’immagine di una delle ultime, vere berline italiane rimaste nel listino.

Alessandro Giurelli | Roma, 02 gennaio 2020.

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