Jay kay ospite di celentano, e la sua passione per le automobili serie.
Premesso che raccontare aneddoti non sia il mio sport preferito, e che abbia sempre tenuto le vicende vissute abbastanza per me e per la mia memoria (quella che rimane, o quella che torna), è pur vero che potrei tranquillamente tirar su un tomo da 200 pagine, nemmeno scritte nel cosiddetto “Corpo Fabio Volo”, che penso equivalga a un 15 punti, in Times New Roman, e che per me equivale a un solo libro letto, tra i vari che ha saputo tirar fuori. Anzi, nemmeno per intero. Mi ricordo solo di un capitolo in cui il protagonista ha una Golf IV argento metallizzato, un frigo blu che abbraccia in piena notte, per sentirsi realizzato, e che scopre anche quanto gli piaccia la bresaola, meravigliandosi di quanto gli facesse schifo prima.
Questo è il modo in cui conosco Fabio Volo, al di là delle tante volte che l’ho incrociato dietro le quinte, e al di là di una sera a cena, a Riccione, vicino all’Hotel Cristallo (non è quello di Cortina, quindi si può evitare di far ballare l’occhio sul tic), parlò a me e a mezza redazione di “Una canzone per te”, dei tanti fantasmi che popolavano il Grand Hotel, dove alloggiavo, quasi da solo, insieme ai vari ospiti che arrivavano e a una minima parte della Produzione e oltre agli autori, che comunque erano relativamente pochi.
Quindi, chi sono io per giudicare Fabio Volo, come fanno quasi tutti quelli che leggono qualcosa di diverso da Novella 2000?
Sono Enzo Bollani, e sono qui a raccontarvi aneddoti. Ecco chi e cosa sono, alle 20:55 di questo 8 agosto, per me molto lavorativo e per voi forse vacanziero, magari con suoceri al seguito, figli che non vedete mai, e altre cose che magari vi fanno rimpiangere un po’ di quella insana routine.
Fabio Volo a parte, torno indietro di un anno, rispetto a quell’estate 2000, in cui ero redattore a “Una canzone per te”, che altro non era che una trasmissione di dediche, con un modernissimo Vidiwall e con tante amenità bellissime, prodotta con le risorse destinate a Rai 2, allora Raidue, cioè poche.
Certo, tra gli autori c’era Andrea Lo Vecchio, alla regia c’era Celeste Laudisio, ma io ero abituato a Raiuno e agli standard di Raiuno, e mi trovavo come uno che si adegua a qualcosa di meno bello rispetto alla rete ammiraglia, come una murena in una vasca da bagno.
Senza per questo essere una Matra.
Quasi un anno prima, e questo sarebbe il vero perché di questo articolo ad personam, stavo lavorando alla trasmissione di Adriano Celentano, la più bella tra quelle che ha fatto dal 1999 in poi, o dal 1999 al 2012, escludendo l’incompreso e male trainato “Adrian”, di quest’anno solare. Parlo di “Francamente me ne infischio”.
Avevo compiuto 18 anni da pochi mesi, mi mantenevo già da solo, vivevo da solo, non cucinavo da solo come non cucino ora, e non ero mai solo perché andavo ancora a scuola. Non so come abbia fatto, a reggere certi ritmi, ma so solo che riuscii ad arrivare a fine novembre così, tirando spesso le 4:00 in studio, perché Adriano provava fino a tardi, svegliandomi alle 7:00 per andare a scuola e diplomarmi in Grafica allo Sperimentale.
Fu difficilissimo, ma stupendo.
Quasi quasi, potrei persino piangere, se penso a tutte le persone che c’erano, e a quelle che non ci sono più. Ma non lo faccio, perché non ho fatto la TV del Dolore.
Arrivò Jay Kay, scortato dalle sue guardie del corpo, tra l’altro inutili, perché lo studio di via Mecenate 76 era blindato il doppio di Fort Knox, e io fui l’unico essere vivente con il quale si intrattenne per un paio d’ore di fila, a parte le poche frasi scambiate con gli autori, degni di uno show di quel tipo, per non dire capaci di far vincere il Premio Montreux, addirittura mentre stavamo ancora andando in onda.
Jay Kay non era il mio mito, come non lo è stato nemmeno chi ho seguito per Quindici anni di fila. Non so essere un inseguitore, e infatti ho lavorato solo alle produzioni in cui mi andava di lavorare, perché in quelle da raccomandati non mi chiamava nessuno.
Sennò sarei a Roma, a fare Domenica In da 20 anni di fila. E sono qui, invece, a salvare Y10, Pande e a collaborare con le realtà che non esigono compromessi.
Jay Kay, comunque, mi era simpatico. Nell’estate del ’99 avevo scoperto mi piacesse, come quello del libro di Fabio Volo che scopre la bresaola, e mi sembrava il pazzo che era e che penso sia tuttora, perché i video non sono cambiati molto, come non è cambiata molto la sua musica e il suo Stile.
Avevo addosso un giacchino che proveniva dalla Mille Miglia, alla quale ero stato presente di straforo, perché cadeva tra i miei 17 e 18 anni, ed ero in fase di organizzazione esistenziale. Apriti cielo, in senso positivo: da quelle che dovevano essere le classiche frasi di cortesia, visto che mi occupavo di far star bene gli ospiti, dar loro un camerino attrezzato secondo le loro richieste specifiche, farli andare negli alberghi che decidevamo in produzione e pianificarne tutti gli spostamenti, oltre a redigere le scalette delle puntate, che cambiavano 87 volte e andavano in onda in modo ancora diverso, perché Adriano si dimenticava e improvvisava, rimanemmo a parlare per un tempo indefinito e indefinibile, penso compreso tra qualcosa di simile a un’ora e mezza e le Tre ore necessarie a discutere di Ferrari e Porsche.
Sarebbe andato a Maranello, e voleva lo accompagnassi, ma per me era un po’ difficile. Dovevo stare in produzione, e mai avrei abbandonato la trasmissione, fosse anche per mezza giornata, perché mi dava fastidio chiedere un permesso simile a Ballandi, e poi avevo non solo il senso di responsabilità che dovevo, ma anche la vera responsabilità.
Non c’era qualcuno che facesse quel lavoro, che si occupasse con me di tutte le fatture, degli hotel, dello stare in sala riunioni con gli autori, annotare tutto e fotocopiare scalette a pioggia, persino andando in onda con Adriano e Francesca Neri.
Io mi domando come fosse possibile, oggi come oggi, che la produzione si fidasse così di un diciottenne, per quanto ne dimostrassi 40.
Non l’ho ancora capito, ed è tardi per chiederlo a Bibi Ballandi, ma è chiaro che non finirò mai di ringraziarlo, come è chiaro che, con il passare del tempo, ancora stia capitalizzando quello che ho imparato allora. Ballandi è stato la mia vera scuola.
Beh, volevo parlare di automobili e di quello che Jay Kay mi disse, patito com’è di Ferrari e Lamborghini. Posso dire che io, porschista da sempre, intavolai un discorso sulla Carrera RS del ’73, che scelse di lì a poco.
Chissà se anche per merito mio.
Di certo, parlammo anche molto del colore che preferivo e che preferisco tuttora: il cosiddetto Melanzana.
Da allora, il buon Jay Kay, simpatico e per nulla menoso, non l’ho più incrociato e nemmeno avuto a tiro, in qualche trasmissione. E non ho il suo numero. Magari chiamo la De Filippi, per chiederle se si possa ospitare nella sua trasmissione, per chiedergli un aggiornamento sul parco auto et divertimenti, a 20 anni di distanza.
A parte gli scherzi, mi piacerebbe molto sapere come si sia evoluto il tutto, dopo tutto questo tempo. Perché è chiaro che, per lui, le automobili equivalgano alla musica, alla sua.
Enzo Bollani. Inverigo, 8 agosto 2019.