Poliziotto Sprint: Trinità dei colpi.
Nella seconda metà degli anni Settanta fu il genere cinematografico spaccabotteghini per eccellenza, e non
solo perché in occasione della prima di “Napoli Violenta” l’entusiasmo del pubblico partenopeo fu tanto
incontenibile da causare la distruzione del cinema: il cosiddetto Poliziottesco, sottogenere che doveva i
suoi natali ovviamente al “Dirty Harry” di Siegel, che affondava i denti già nel precedente “Banditi a
Milano” di Lizzani, anche se per l’esplosione definiva del genere si sarebbe dovuto attendere Castellari
col suo teso e violento “La polizia incrimina, la legge assolve” del 1974.
I tòpoi c’erano tutti: il commissario biondo e baffuto con la vita personale in frantumi, la mala senza scrupoli, l’ambientazione metropolitana, gli omicidi efferati e i lunghi inseguimenti con la “Giulia” grigioverde.
Da lì al successivo “Roma Violenta”, che segnò la nascita dell’icona del genere Maurizio Merli (ingaggiato perché il cachet
di Franco Nero era nel frattempo salito alle stelle) il passo fu breve e, complice una situazione sociale
incandescente nel Belpaese all’epoca e una pubblica opinione inquieta in cerca di valvole di sfogo,
assicurò ingenti guadagni e una notevole quantità di epigoni per un buon triennio.
Nel 1977, il poliziottesco aveva imboccato l’immancabile viale del tramonto, e non perché la situazione
fosse più tranquilla (basti ricordare solo che il sequestro Moro avvenne l’anno successivo), ma per mera
saturazione del mercato, generata da ritmi di produzione oggi impensabili: nel giro di un mese e mezzo il
film era bell’e pronto, libero di invadere le sale di tutta Italia. Così, con un genere che pareva aver dato
tutto quello che poteva dare in una rocambolesca corsa all’iperbole spettacolare e violenta, qualcuno cercò
di esplorare nuove vie. E se il tentativo di poliziottesco comico (“Colpo in Canna” di Ferdinando di Leo,
1975) si era concluso in un sostanziale flop, un altro dei maestri del cinema d’azione, Stelvio Massi,
cominciava ad accarezzare l’idea di un poliziottesco diverso, che desse maggior spazio agli spettacolari
inseguimenti, croce e delizia di ogni pellicola fin dalla nascita del genere. E che, anzi, fosse
completamente basato sull’aspetto strettamente motoristico.
Il rischio di annoiare a morte chiunque non fosse un appassionato sfegatato di auto, era concreto. Ma si
volle andare sul sicuro ingaggiando l’idolo dei fan del poliziesco Maurizio Merli, peraltro appassionato di
auto e ottimo pilota a sua volta, tanto da aver spesso guidato in prima persona le Alfa nelle scene d’azione.
Merli accettò con entusiasmo la proposta di quello che divenne il regista per le ultime sei pellicole del
genere fino al 1980, però il suo personaggio doveva discostarsi in modo marcato dall’immutabile e
roccioso “commissario di ferro” che aveva preso a schiaffoni e colpi di Beretta la mala sozza e perfida
nelle Tre stagioni cinematografiche precedenti. Ne venne fuori qualcosa di disorientante: Merli era
abbronzato, pettinato diversamente e soprattutto privo dei suoi mitici baffoni. Dulcis in fundo, invece che
essere come al solito doppiato dal mitico Pino “James Bond” Locchi, recitava con la sua stessa voce, per
la prima volta. La prova fornita non fu poi disdicevole, e Merli avrebbe fatto a meno del doppiaggio
anche nei successivi lavori con Massi.
Messo a punto il cast e ingaggiata l’equipe di stuntman migliore possibile, ovviamente quella del francese
Remy Julienne, presenza quasi fissa di ogni scena d’azione che si volesse definir tale, serviva quantomeno
un barlume di sceneggiatura che fungesse da filo conduttore per i vari inseguimenti di cui si componeva il
film. L’idea dello sceneggiatore Aldo Capone era semplice e geniale: perché non ispirarsi alle leggendarie
gesta del brigadiere Spatafora, “Il poliziotto con la Ferrari” protagonista di spericolati inseguimenti ad alta
velocità nella Roma degli anni Sessanta? L’eco delle sue gesta era ancora vivo nell’immaginario popolare,
e avrebbe certo assicurato una discreta aurea di “veridicità” alla pellicola. Semmai l’unico problema di una
certa identità sarebbe stato il procurarsi una Ferrari 250 GTE come quella guidata all’epoca dal brigadiere
che, per quanto fosse niente più che un’antiquata granturismo con ben poco mercato in tempi di austerity,
era pur sempre una Ferrari. Ne saltò fuori un esemplare, fermo da anni e in condizioni tendenti al tragico,
nel Nord Italia: venne via ad un prezzo mai chiarito pubblicamente, ma sicuramente piuttosto accessibile.
Ma chi era poi questo “poliziotto con la Ferrari”, come da titolo della biografia recentemente pubblicata
per mano della figlia, e soprattutto: quante delle gesta eroiche che gli vengono attribuite sono
effettivamente accadute e quante frutto di fantasia?
Armando Spatafora nasceva a Siracusa il 9 marzo del 1927. Entrò a far parte della Polizia nel 1950, al
termine del servizio militare svolto in Aeronautica. Nel 1955 viene nominato “guardia effettiva” e in
breve tempo promosso a brigadiere a seguito di “brillanti operazioni”. La sua vita professionale si è identificata con la storia del pronto intervento della Questura di Roma nel periodo alquanto burrascoso degli anni Sessanta, quando la locale criminalità romana si era evoluta, in peggio, diventando sempre più arrogante e con sempre meno scrupoli.
Si erano moltiplicate le rapine, i furti negli appartamenti e nei negozi, e le guerre fra bande che si contendevano il dominio sulla città (erano gli anni della famigerata Banda Cavallero) si facevano sempre più frequenti. Così come gli inseguimenti nei quali i banditi, alla
guida di potenti Alfa Romeo o Maserati rubate, avevano ormai la meglio sulla mitica “panterona” della Squadra Mobile.
“La Panterona” altro non era che la leggendaria Alfa Romeo 1900 Super con motore potenziato ed
equipaggiamento speciale (parabrezza blindato, protezioni antiproiettile sulle ruote anteriori, tetto apribile
per consentire agli agenti di fare fuoco…) e benché si fosse fatta onore nel decennio precedente, nel 1960
si trovava ad essere regolarmente umiliata dalla nuova mala romana, anche perché ne esisteva un unico
esemplare. Avete letto bene: una sola pantera per l’intera città di Roma. La Polizia del tempo era molto
più squattrinata di quella odierna…
A quel punto l’allora Capo della Polizia, il famoso prefetto Vicari, decise di avere un confronto diretto con
gli agenti della Squadra Mobile per analizzare la situazione dal punto di vista degli uomini che operavano
sul campo. E così, il 12 gennaio 1962, in una mattina piovosa tutti gli uomini della “Mobile” vennero
convocati per un incontro con il “Capo”, al quale ebbero modo di rappresentare tutto il loro disagio e la
loro impotenza, principalmente per la cronica mancanza di mezzi o quantomeno per la loro obsolescenza.
Ad un certo punto, Vicari andò dritto al sodo e chiese esplicitamente agli agenti che stavano davanti a lui:
“Insomma, di cosa avete bisogno?”
“Ci vorrebbe una Ferrari, eccellenza!” rispose una voce. Era la voce del brigadiere Spatafora, ai tempi già
noto e probabilmente pure temuto e rispettato dalla malavita romana. Calò il gelo nella sala e tutti i
presenti si guardavano l’un l’altro pronti ad assistere alla proverbiale sfuriata del prefetto, infastidito
dall’evidente eccessività della richiesta. ma con gran sorpresa degli astanti il Prefetto, evidentemente
uomo di estrema concretezza, lapidariamente rispose: “Ebbene, l’avrete!” Vicari fu di parola, e nel mese
di novembre di quello stesso anno la questura di Roma ricevette due Ferrari 250 GTE 2+2 nere, con
lampeggiante, sirena e la scritta “squadra mobile” sulle portiere.
Spatafora e altri Tre colleghi (Carlo Annichiarico, Dalmatio De Angelis e Giuseppe Savi ) vennero inviati
a Maranello per sostenere un corso di guida veloce durante il quale si mise particolarmente in luce proprio
Spatafora. Nel corso dei primi collaudi, una delle Due Ferrari finì distrutta in un incidente, mentre l’altra
venne affidata proprio al protagonista della nostra storia, che ne diventò consegnatario assieme ai Tre
colleghi, unici autorizzati a guidarla.
Il brigadiere Spatafora, un uomo dall’aspetto apparentemente mite, famoso per la memoria fotografica
con cui ricorda i visi dei pregiudicati, diventa così, tra il dicembre del 1962 e il 1968, il poliziotto più
temuto dalla criminalità romana per la sua incredibile abilità alla guida. Abilità grazie alla quale si venne
a stabilire uno strano rapporto, quasi di stima, dei criminali nei confronti del brigadiere-pilota. Si diceva
che alcuni ladri cercassero volutamente Spatafora per sfidarlo. E durante uno di quegli spettacolari
inseguimenti, nel marzo del 1964, avviene il fatto passato alla storia, raccontato negli anni in mille modi
diversi: la folle corsa per la scalinata di Trinità De’ Monti in cui i malviventi (dicono le cronache che
fossero “Lo Zoppo e “Il Pennellone”), alla guida della loro Alfa 2500 rubata, si gettarono a capofitto,
convinti che il brigadiere non avrebbe mai sacrificato la sua costosa Ferrari. Si sbagliavano: il brigadiere
volante non ci pensò Due volte e andò loro dietro, riuscendo a bloccare l’Alfa ormai in panne con ruote e
coppa dell’olio in frantumi. La folle corsa non fu indenne nemmeno per la Ferrari, che dovette essere
rimandata a Maranello per un grosso tagliando (leggi: sostituzione del cambio) ma il brigadiere ottenne,
oltre all’onore delle cronache mondane e alla cattura dei malviventi, addirittura i complimenti degli stessi,
quasi onorati di essere stati battuti dal “migliore”.
“Poliziotto Sprint” non è un racconto autobiografico di questa figura leggendaria e romantica, ma più un
sentito omaggio a dei tempi eroici. E, ovviamente, l’omaggio non poteva essere dignitoso se non
replicando la sequenza entrata nel mito: col favor delle tenebre, non si sa dopo quali e quante
autorizzazioni, la folle corsa per la scalinata fu girata tale e quale dalla spericolata equipe di Remy
Julienne che, utilizzando la Ferrari e una Lancia Flavia Coupè, vide bene di “arricchirla” con uno
spettacolare capottamento di quest’ultima. Quella sequenza, terribile per chi abbia minimamente a cuore i
beni culturali italiani, componeva il “flashback” in cui il maresciallo Tagliaferri, impersonato da
Giancarlo Sbragia e ritagliato proprio sulla figura di Spatafora, insegna i trucchi di guida allo spericolato ma indisciplinato agente Marco Palma / Maurizio Merli.
Così, con un implicito “passaggio di consegne” fra il vecchio Tagliaferri e il giovane Palma, impegnato a
contrastare le terribili Citroen DS elaborate guidate dal bandito-rallysta “Nizzardo” (un Angelo Infanti
trés charmante) si perpetuò l’epopea del poliziotto in Ferrari adeguandola ai canoni del poliziottesco anni
Settanta. Inutile ribadire che il film offra delle sequenze assolutamente spettacolari, in cui Merli – Palma,
alla guida della Giulia elaborata prima e della Ferrari 250 poi, e la banda del Nizzardo con le Citroen DS,
si esibiscono in tutto il repertorio di sbandate, testacoda, salti e sportellate della pazzesca squadra di Remy
Julienne, sicuramente il vero attore principale del film. Per ogni appassionato di auto, un film da vedere e
rivedere fino allo sfinimento, magari mandando avanti col fast forward le scene coi dialoghi che, per
fortuna, sono molto poche.
Il film ebbe grande successo al botteghino, incassando un miliardo e 300 milioni di lire dell’epoca, parte
dei quali servì probabilmente a ripagare i danni arrecati alla scalinata di Trinità Dei Monti. Con un
curioso strascico: il primo episodio della saga Fast and Furious, in cui il poliziotto Paul Walker si infiltra
nella banda di Toretto / Vin Diesel nello stesso modo in cui Marco Palma entra a far parte della banda del
Nizzardo, riprende gran parte della trama di “Poliziotto Sprint” e persino il finale con sfida cavalleresca
fra i protagonisti è identico, fatto salvo il finale, ben più tragico nel caso dell’originale italiano. Il regista
Rob Cohen, successivamente, ha candidamente ammesso durante un’intervista che “Higway Racer”, titolo
con cui il film fu esportato negli States, è uno dei suoi film preferiti di sempre. Complimenti per il
candore, Rob…
Il brigadiere Spatafora, dopo aver ottenuto i gradi di maresciallo, si congedò dal servizio alla fine degli
anni Sessanta per morire, lontano dai clamori, nel 1987. Maurizio Merli lo seguì prematuramente appena Due
anni più tardi, nel 1989, mentre giocava a tennis. E mentre la Ferrari originale in uso a Spatafora, rigorosamente restaurata, fa oggi
bella mostra di se al museo della Polizia di Stato, si sono invece perse le tracce della “250” usata nel film,
che fu pesantemente danneggiata durante le riprese, soprattutto dopo il salto del burrone finale. Pare che il
rottame fu esposto all’ingresso dei vari cinema dove la pellicola venne proiettata le prime volte,
dopodiché, chissà.
Si dice che un appassionato l’abbia comprata poco dopo e ora stia chiusa in qualche anonima rimessa
italiana, al riparo da occhi indiscreti, nelle stesse deplorevoli condizioni in cui l’ha ridotta Remy Julienne.
Forse, stiamo ancora una volta sconfinando nella Leggenda.