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del mito Stirling Moss e dell’importanza dei secondi – Superposter
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Stirling Moss. Illustrazione di Antonio Cabras, per SuperPista.

del mito Stirling Moss e dell’importanza dei secondi

Uno dei motti più citati fino allo sfinimento, soprattutto dagli appassionati di motori, è la celeberrima frase attribuita ad Enzo Ferrari: “il secondo è soltanto il primo dei perdenti”. Di certo, una singolare reinterpretazione dello stantìo e ridondante “L’importante è partecipare”, coniato con fini di consolazione verso una moltitudine di generazioni di perdenti cronici, ovvero la maggior parte di noialtri. Che questa frase sia poi riuscita nel suo intento, è cosa invero discutibile. 

La frase di Ferrari è riferita ad un’altra dimensione parallela e non contigua, una monade mitologica e intonsa: quella dei vincenti cronici, quelli che se per caso non vincono, è per fatalità. E certo nessuno avrebbe oggi il coraggio di negare che la storia del Drake, costellata di trionfi e di qualche inevitabile fallimento, presa nel suo complesso sia una storia vincente. 

La storia contemporanea non è mai stata tenera con chi arriva secondo. Provate a fare un esperimento: chiedete a chi volete voi, di qualunque età o livello culturale, chi fosse Buzz Aldrin. La stragrande maggioranza di loro non sapranno rispondere, nonostante quel soprannome “Buzz” sia difficilmente confondibile. Buzz Aldrin fu il secondo uomo sulla luna, colui che scese dal modulo Apollo 11 qualche minuto dopo Neil Armstrong, suo maggiore in grado e perciò predestinato alla gloria imperitura nei secoli. 

Aldrin, meritevole di gloria almeno quanto Armstrong, ma dimenticato dalla storia, negli anni successivi alla spedizione dovette lottare contro alcool e depressione. Certo, c’era di peggio: pensate al terzo uomo dell’equipaggio, quel Michael Collins che, dall’Apollo 11, nemmeno potè uscire. Quello dell’allunaggio è, insomma, il paradigma perfetto; nonché l’allegoria di una storia umana che, tradizionalmente, vive di chi arriva primo, o di chi arriva 1.

Nella storia dello sport motoristico, che per costituzione è caratterizzato da un estremo livello di contrapposizione agonistica, questo concetto è stato ovviamente portato all’estremo. Il pubblico difficilmente empatizza con chi non è un vincente assoluto, ma ci sono state delle eccezioni. La più famosa era rappresentata da Gilles Villeneuve, che vinse in tutto soltanto sei gran premi, arrivando a sfiorare il mondiale ma senza mai vincerlo. Non ne ebbe il tempo materiale. Ma Gilles fece di più: procurò alla Formula Uno la passione incondizionata di una generazione intera, ammaliata dalle sue prodezze, dalle sue spericolatezze fuori e dentro la pista, dai suoi casini e soprattutto dal suo incontestabile carisma romantico e decadente. 

Un’ altra eccezione era rappresentata dal britannico Stirling Moss. Un nome che difficilmente manca di far rizzare i peli nelle braccia a chi abbia almeno una vaga infarinatura di motori, e di peli.

Stirling Moss e la Maserati 250 F.

Moss, classe 1929, esordì nel mondiale di Formula Uno prendendo parte al Grand Prix di Svizzera nel 1951, anno facente parte di quell’epoca eroica e folle in cui gli abitacoli ancora non si erano richiusi attorno ai piloti, che ancora si aveva l’occasione di vedere contorcersi in curva nello sforzo di girare un timone vagamente adibito a volante, nel tentativo di disintegrare le più elementari leggi fisiche, come la forza centrifuga. 

Moss fece sfoggio presto del suo innato talento velocistico, arrivando ottavo assoluto al volante della sua HWM-Alta e attirando l’attenzione del vincitore nonché suo idolo, sua maestà Juan Manuel Fangio, su Mercedes. Tornato a correre nel mondiale dopo una pausa rallystica al fianco di John Cooper, ottenne il primo podio in Belgio, nel 1954, sempre dietro Fangio. L’anno seguente, Moss divenne dunque compagno di squadra proprio di Fangio, alla guida della prodigiosa Mercedes W 196, auto con cui ottenne le sue due prime vittorie iridate concludendo, infine, il campionato al secondo posto alle spalle dello stesso Fangio. 

Ma nello stesso anno, Moss, alla guida di una Mercedes 300 SLR (indubbiamente una delle auto da corsa più belle di sempre) legò indissolubilmente il proprio nome alla Mille Miglia, trionfando nella mitica e massacrante gara che si svolgeva da Brescia a Roma e ritorno con la media incredibile di 157 km/h per 1597 km, rifilando più di mezz’ora al compagno di squadra Fangio. Si può dire che il mito di Moss si debba a quella leggendaria vittoria in quella che era al tempo una delle competizioni più famose e seguite a livello mondiale. 

Da quel punto in poi il destino di Moss, che prometteva una carriera costellata trionfi e gloria imperitura, prende una piega curiosa che ne originerà la nomea di eterno secondo. Dal 1955 al 1958, per Quattro anni di fila, Moss conclude il mondiale in seconda posizione, nonostante le tante vittorie. In particolare, nel 1958: lo perse per un solo punto, contro la Ferrari di Mike Hawthorn, nonostante i Quattro primi posti di quell’anno. L’anno seguente, di nuovo in testa al mondiale, vide il motore della sua Mercedes piantarlo proprio durante l’ultima gara in Florida. Concluse terzo e, nonostante lo sconforto, continuò a provarci, distinguendosi per la sua tecnica sopraffina, nonché per il suo fairplay tipicamente britannico. 

“Spero di essere ricordato come il più grande pilota a non aver mai vinto il campionato del mondo”, disse di se, con il suo proverbiale humour. Ed è proprio quello che accadde: altri Due terzi posti nella classifica mondiale fino a quel fatidico 1962 in cui, nel celebre circuito di Goodwood, alla guida della sua Lotus (“È meglio perdere con onore in una vettura inglese che vincere con una vettura straniera”, ebbe a dire) rimase gravemente ferito, in un tremendo incidente. Prese un banco di terra a più di 160 km/h, senza cintura di sicurezza: ci vollero tre quarti d’ora solo per estrarlo dai rottami. Il danno cerebrale fu rilevante: Trenta giorni di coma e Sei mesi di paralisi parziale che, di fatto, posero fine alla sua carriera nella massima disciplina motoristica. In verità, tentò il rientro già nel ’63, rinunciando a proseguire le prove della sua Lotus, perché non si sentiva a suo agio con la nuova vettura. Ci fu chi disse che avrebbe necessitato di pochi mesi per completare il recupero psicofisico, e sarebbe tornato il Moss di sempre. Secondo altri, dopo il trauma, i riflessi e la capacità di vista di Moss ne furono danneggiati a tal punto da rendere impossibile un totale recupero.

Chi lo sa, ormai la decisione era presa. Moss però non abbandonò mai veramente il mondo delle corse, che continuò a frequentare sia come commentatore per la BBC che come pilota privato con le vetture più disparate (storica la partecipazione, nel 1968, alla 84 ore del Nürburgring, alla guida di una Lancia Fulvia HF ufficiale) collezionando, in tutto, qualcosa come 212 vittorie su 375 gare disputate: un record tuttora imbattuto. 

Gli ultimi anni non hanno frenato la sete di velocità di Moss, molto attivo nelle gare storiche e nelle rievocazioni della Mille Miglia. Il ritiro definitivo avvenne solo il 9 giugno 2011, alla tenera età di 81 anni, in occasione delle qualifiche della Le Mans Legend. Ormai già da anni il suo nome stesso era sinonimo di guida veloce, tanto che tuttora in Inghilterra, quando un bobby ferma qualcuno per eccesso di velocità, spesso usa chiedere: “Ma chi si crede di essere, Stirling Moss?” 

una bella rentrée, a Montecarlo: Stirling Moss e la sua Maserati 250 F. Qualche anno dopo.

Lo stesso Moss raccontava divertito quando, in età ormai avanzata, si è sentito rivolgere quella stessa domanda da un poliziotto che lo aveva fermato per la sua guida vivace. Lui rispose “In persona, piacere di conoscerla.” Pare che il poliziotto, alla fine, non ritenne di dover procedere con la contravvenzione. 

Insignito del titolo di Sir, il vecchio Moss si concesse anche un cameo nei panni di se stesso nel primo episodio di 007 dell’era Daniel Craig, “Casino Royale”. Livelli più alti della pur gradevole reclame Heineken con Jackie Stewart, altra leggenda britannica. 

Moss “muore come ha sempre vissuto”, come dichiarato la moglie, il 12 aprile 2020. Non piegato nemmeno da due paurosi incidenti domestici, fra cui un pauroso volo in un pozzo che gli valse due gambe rotte, ma dalla solita “lunga malattia”. L’automobilismo perde così il suo decano, l’ultimo vivente ad aver corso in Formula 1 quando il motore era ancora davanti. 

Il fatto che non avesse mai vinto alcun mondiale, arrivando cinque volte secondo e tre volte terzo, alla fine non faceva tutta questa differenza. Per colui che era divenuto il sinonimo stesso di guida veloce, l’essere eterno secondo è stato, per una volta, un aspetto del tutto secondario. 

Antonio Cabras | Milano, 13 Aprile 2020.

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