notti magiche, inseguendo un goal
Venni a sapere della sua esistenza solo grazie ad un trafiletto nelle ultime pagine di Quattroruote, in quella piccola rubrica di due pagine che mi pare si chiamasse “Auto Stop”, in cui erano brevemente raccontate curiosità e bizzarrie del mondo dell’auto.
Ci si poteva trovare un po’ di tutto: dalla Cadillac lunga 11 metri e munita di piscina del classico petroliere texano, alla Maserati Biturbo trasformata in battello; dalle patetiche copie della Porsche 911 realizzate in Brasile su base Maggiolino alla Volvo 245 completamente ricoperta d’adesivi che girava per Milano, una volta.
Insomma, un bel po’ di paccottiglia, dove però non mancavano le chicche che avrebbero meritato una trattazione ben più ampia.
Una di queste riguardava una supercar italiana estrema, citata nel titolo come “Sportiva musicale”. Vai a sapere perché. Aveva forse un’orchestra nell’abitacolo al posto del solito, scontatissimo impianto Hi-Fi? Niente di tutto questo: l’arcano veniva svelato una volta che si arrivava al nome: Cizeta Moroder V16T.
Moroder, come Giorgio Moroder? Il baffuto altoatesino Tre volte premio Oscar, padre e nume tutelare della musica disco, genio del sintetizzatore e autore di colonne sonore già mitiche… Quel Giorgio Moroder? Sì, esatto, proprio lui. Ma per sapere cosa c’entrasse il buon vecchio Giorgio con la nascita di una supercar, occorrerà cominciare da più lontano.
Nella seconda metà degli anni ’70, l’imprenditore Claudio Zampolli, uomo Lamborghini per gli Stati Uniti, aveva il sogno di costruire una supercar tutta sua. Sogno che rimase tale per anni, fin quando, dopo il periodo nero della liquidazione fallimentare e della conseguente vendita ai fratelli Mimran, il legame tra Zampolli e la Casa modenese si interruppe e lo stesso potè finalmente dedicarsi alla sua idea. E così, nei primi anni ’80, venne costituita insieme al compositore Moroder, grande appassionato di auto benché non avesse la minima idea di come si costruisse da Zero una supercar – e ancora meno i soldi necessari per farlo! – la società Cizeta Moroder, ove “Cizeta” ovviamente stava per Claudio Zampolli.
Di lì a poco, diversi ingegneri cominciarono ad abbandonare una Lamborghini che, pur incrementando le vendite grazie anche alla congiuntura economica favorevole alle sportive di lusso, vivacchiava ancora in acque incerte. Chiamati da Zampolli, questi tecnici progettarono un motore rivoluzionario: un 16 cilindri a V con 64 valvole, ottenuto mediante l’unione di due V8 in linea di derivazione Lamborghini Urraco, da 6 litri di cilindrata e con potenza di ben 560 CV. Erano numeri da fantascienza, per il periodo, con il plus dell’esclusività totale dei Sedici cilindri (altro che primato della Bugatti Veyron…), che sarebbero bastati da soli a garantire un gran battage pubblicitario nel decennio edonistico per eccellenza. Il condizionale è d’obbligo, in quanto in realtà la V16T, questo il nome della supersportiva, ebbe uno sviluppo problematico per quanto riguarda il telaio, che dovette essere più volte riprogettato ex novo.
Nel frattempo, i fratelli Mimran, nonostante una situazione finanziaria non più drammatica, cedettero improvvisamente la Lamborghini agli americani della Chrysler. La notizia, salutata inizialmente come promettente in virtù delle dimensioni industriali del gruppo americano, si rivelò invece a breve tempo quasi disastrosa: troppa era la distanza fra le filosofie dei due marchi, il che si tradusse in progetti bocciati, progetti sballati (la concept car Portofino a quattro porte, il cui stemma sacrilego racchiudeva orrendamente il Toro di S.Agata Bolognese nel pentagono Chrysler), e un’erede alla ancora strabiliante ma ormai vecchiotta Countach, ancora lontana dall’arrivare, dopo anni di studi.
Ne sa qualcosa Marcello Gandini, già autore di Miura e Countach, i cui disegni per quella che sarebbe stata la Diablo venivano puntualmente bocciati o rimaneggiati dalla dirigenza americana. Leggenda narra che il Maestro, offeso dalla miscredenza dimostratagli, abbia portato alla Cizeta quello che era il disegno originale eseguito per la Lamborghini, opportunamente modificato nella parte centrale per via del maggiore ingombro del mastodontico motore a sedici cilindri. Un po’ per vezzo e un po’ perché diversamente non si poteva fare, Gandini disegna dunque un cofano posteriore immenso, orizzontale e larghissimo, che domina visivamente la V16T: la possente meccanica quindi era messa in evidenza assoluta. Per bilanciare il tutto, l’abitacolo viene spinto più in avanti possibile, fin quasi ad appoggiarsi sopra l’assale anteriore, come peraltro accadeva sulle monoposto di Formula Uno degli anni Ottanta.
Il muso era poi cortissimo e molto inclinato, con la chicca (anch’essa volutamente “eccessiva”, visto il contesto) dei fari a scomparsa: ben Quattro!
Le attività di sviluppo e industrializzazione, benchè fatte con grande attenzione al contenimento dei costi, comportarono un importantissimo impegno economico da parte di Zampolli e Moroder: si stima che il tutto costò non meno di sei miliardi di lire dell’epoca. Una delle conseguenze di questa ricerca del risparmio era il massiccio utilizzo di componentistica di provenienza Fiat per gli interni: le bocchette e l’intero impianto di climatizzazione, ad esempio, erano quelli della Lancia Thema. Quello che avrebbe rischiato di essere percepito come una caduta di stile era alla meglio mitigato dall’esteso impiego di pellami pregiati, come da miglior tradizione italiana.
Il pezzo forte erano in ogni caso le prestazioni, indubbiamente da primato assoluto nonostante il peso di 1700 kg fosse quello di una grande berlina coeva: ben 328 km/h di velocità massima ed un’accelerazione da 0 a 100 bruciata nell’incredibile tempo di 4,5 secondi. Il primo esemplare finito fu esposto a Los Angeles solo nel 1988 e, secondo quanto narra la “leggenda”, venne ultimato la notte prima della partenza. L’esordio negli States era strategico: Zampolli, che grazie agli anni in Lamborghini era “di casa” negli Stati Uniti, era convinto che proprio Oltreoceano la sua vettura avrebbe trovato i migliori acquirenti.
Ma c’è un MA: nonostante l’auto fosse fisicamente esistente, in realtà non aveva ancora ricevuto l’omologazione.
Dopo quasi un anno, nel 1989, a causa di una cronica mancanza di fondi, le procedure non erano stata completate, mentre erano usciti dalle linee di produzione appena Otto esemplari, a fronte di Venticinque previsti. Così, provato dalle alte spese sostenute per quello che si stava rivelando un costosissimo fallimento industriale, nel 1990 Giorgio Moroder decise di tirarsi indietro ed abbandonare la società. Per ironia della sorte, nello stesso anno ottenne il Philadelphia Award for Design Excellence per la grafica del logo Cizeta, da lui realizzato. La società cambiò nome in “Cizeta Automobili S.r.l.”, ma nella sostanza cambiò pochino: la V16T, priva del fondamentale canale di vendita americano, non vendeva.
La tanto sospirata omologazione arrivò soltanto nel 1991, ma ormai l’auto accusava il passare degli anni e, soprattutto, era penalizzata da un’imbarazzante somiglianza “facciale” con la nuova Lamborghini Diablo (sempre di Gandini, ovviamente). Così avvenne la beffa suprema: pur nata diversi anni prima della Diablo, la V16T venne percepita dal pubblico come una sua brutta copia. Sulla percezione del pubblico ebbe indubbiamente una sua funzione il peso e la notorietà del blasone Lamborghini, ben diverso da quello di un marchio completamente sconosciuto e ancora anonimo per i più. Certo, non aiutò la diffusione della V16T nemmeno il prezzo, proibitivo, di 300.000 dollari.
La Cizeta rimase attiva tra il 1991 e il 1995, anno in cui fu completato a fatica l’ultimo esemplare commissionato: l’anno precedente, Zampolli fu costretto a dichiarare bancarotta: sebbene non esistano dati relativi a questi Quattro anni di vita del marchio, si è stimato che la produzione totale dal 1988 al 1995, compresi i prototipi, non sia andata oltre la dozzina di esemplari.
Dopo la disavventura della bancarotta, Zampolli emigrò negli USA, dove rifondò l’azienda, con il nome di “Cizeta Automobili USA”, fissando la sede in California. Nel 1999 e nel 2003 produsse altri Due esemplari, di cui uno in versione spider commissionato da un collezionista giapponese e ribattezzato “Cizeta Fenice TTJ Spyder”. Dopo il fallimento del 1994, nello stabilimento vi erano ancora componenti sufficienti per poter produrre queste ultime due vetture, perché in Emilia non si butta via niente.
Antonio Cabras | Milano, 16 marzo 2020.