Dalle stelle alle strade: la storia Matra
I tedeschi hanno inventato l’automobile, gli italiani l’hanno fatta correre e i francesi?
Beh i francesi erano seduti a tavola a bere vino.
Oggi il mercato automobilistico dei cugini d’oltralpe è ricco di vetture più o meno discutibili, dalle utilitarie, ai crossover, dai SUV ai furgoncini. Sono auto valide ma senza brio, prive di quell’anticonformismo bizzarro che per molto, moltissimo tempo le ha contraddistinte.
Creazioni eccessivamente barocche, spesso al limite del buon gusto, che magari non riuscivano a raccogliere l’unanimità dei consensi che ma che di certo non passavano inosservate. Le francesi di una volta erano audaci, sbarazzine, uscivano dagli schemi e se ne infischiavano dei tradizionalisti indignati: in un’unica parola avevano personalità, qualcosa che non si può comprare, né tantomeno copiare da qualcun’altro.
Erano gli anni delle DS e delle AMI, delle Renault 4 e delle varie Simca, erano gli anni delle Panhard e delle Matra. Già, la Matra. Oggi non esiste più: è solamente uno dei tanti marchi che non ce l’hanno fatta, naufragati in chissà quali abissi, dopo una carriera in bilico fra il successo e lo sconcerto. Eppure Matra è stato uno dei più importanti costruttori di tutti i tempi, non solo per la Francia.
In origine la società non fabbricava automobili, ma razzi. Sorta dalle ceneri della CAPRA (che non era l’azienda di Sgarbi, ma una ditta specializzata in aeronautica militare), la fabbrica si dedicò alla costruzione di armamenti bellici per supportare la resistenza francese nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Al termine del conflitto, Matra spostò il suo campo d’interesse in un settore allora inesplorato, ma che di lì a poco sarebbe diventato protagonista assoluto dello scenario mondiale: quello della ricerca spaziale.
Marcel Chassagny, il presidente e fondatore del gruppo, aveva però un progetto diverso in mente. La sua passione per le auto sportive e le competizioni, unitamente ad una naturale inclinazione volta al perseguimento di nuove strade, lo portarono a trovare un accordo con il costruttore e corridore René Bonnet. Le condizioni erano semplici: Chassagny avrebbe messo a disposizione i fondi necessari ad acquistare un impianto di produzione, in cambio Bonnet avrebbe progettato una vettura.
La Djet
Gli studi sperimentali sulla lavorazione della vetroresina, avviati qualche anno prima, tornarono particolarmente utili alla Matra, che poté utilizzare una carrozzeria leggerissima per la sua nuova creazione. Costruire una macchina da zero non era né facile né economico, soprattutto per una piccola realtà che stava muovendo i primi passi in un settore serrato come quello automobilistico. Per gli organi meccanici venne fatta una vera e propria opera di cannibalizzazione: si prese il motore della Renault 8 (quella base, dal momento che la Gordini era ancora una lontana fantasia), mentre il cambio proveniva da un furgone Estafette. Non era propriamente l’accoppiata che si aspettava da un’automobile sportiva.
Il risultato venne presentato al Salone di Parigi del 1962 con il nome di Djet. La leggenda vuole che l’auto avrebbe dovuto chiamarsi Jet, a sottolineare il principale campo di applicazione della Matra, se non che si decise di aggiungere la D (che è muta come quella di Django) per evitare che i francesi sbagliassero la pronuncia.
La Djet ricordava molto la Alpine A110, che uscì quasi in contemporanea. Con essa condivideva diverse caratteristiche stilistiche, tipiche delle berlinette sportive in voga in quegli anni. Ma non era soltanto bella, era anche veloce. La potenza dell’onesto 1.1 Renault era rimasta invariata, ma la posizione in cui venne montato il propulsore fu una rivoluzione. Per la prima volta in assoluto su un’auto di serie, si optò per una soluzione che vedeva il motore posto centralmente; in quel modo la vettura era perfettamente bilanciata ed estremamente fluida negli stretti tornanti alpini, così come nelle curve secche delle piste. Di colpo i 70 cavalli erano più che sufficienti a rendere la guida agile e divertente, oltre che sicura grazie ai freni a disco su tutte le ruote (!).
Ben presto la Djet cominciò ad essere utilizzata per lo scopo secondo cui era stata progettata: correre. Nel 1963 si aggiudicò la vittoria nella categoria prototipi della Targa Florio, in quello che probabilmente fu il momento più alto della sua carriera agonistica. Non male per un’azienda che fino all’anno prima non aveva mai visto un tracciato e fra le tante cose, produceva pure piscine.
La M530
Arrivò il 1967 e fu la volta della seconda di casa Matra, la M530. Nel frattempo Bonnet era uscito dal gruppo e il marchio francese si trovò a sviluppare una vettura in maniera autonoma. L’erede della Djet avrebbe dovuto rivolgersi a una clientela più ampia rispetto a quella nicchia di appassionati di gare su pista e cronoscalate. Per cui, era di fondamentale importanza che incontrasse le esigenze di un pubblico più eterogeneo, che amava viaggiare, senza rinunciare al piacere di guida e al brio di una macchina sportiva ma allo stesso tempo economica nella gestione.
Nacque una targa dalla linea originale, che non lasciava spazio a compromessi, come nella migliore delle tradizioni francesi. La M530 era immediatamente riconoscibile per via dei fari a scomparsa e per il passo smisuratamente lungo, che conferiva al profilo un aspetto decisamente ambiguo, ma allo stesso tempo permetteva l’alloggiamento di un divanetto dietro i sedili in grado di ospitare due bambini.
Le stranezze non finivano qui: all’interno spiccava un caratteristico volante ovale, studiato per lasciare al guidatore più spazio per le gambe (almeno sui rettilinei), mentre il tetto era diviso in due metà simmetriche che potevano essere alloggiate nel baule anteriore, una volta rimosse dai supporti.
Meccanicamente, la vettura montava un V4 Ford di 1700 centimetri cubici e 73 scalpitanti cavalli. Ancora una volta la mancanza di potenza era bilanciata da quelle soluzioni che avevano fatto la fortuna del modello precedente: la carrozzeria peso piuma in vetroresina e il motore disposto centralmente. Se la Djet fu la prima auto di serie ad adottare questa soluzione, la M530 fu la prima 2+2 a farlo.
Nonostante la bontà generale delle sue caratteristiche, il modello non riuscì a sfondare sul mercato, nemmeno su quello interno. I principali limiti del progetto sono riconducibili alla linea, oltre che alla mancanza di un’adeguata rete di vendita. In fase di lancio, Matra dichiarò che la vettura sarebbe stata distribuita presso i concessionari Ford, ma dagli USA arrivò un veto a tale operazione, per cui la casa francese si ritrovò improvvisamente scoperta.
Nel frattempo, un tale Jackie Stewart bissava il campionato mondiale di Formula 1 del 1969 (titolo piloti e costruttori), a bordo di una Tyrrell col motore Cosworth e il telaio Matra. Qualche anno dopo, la casa di Romorantin piazzò tre vittorie di fila alla 24 ore di Le Mans, aggiudicandosi le edizioni 1972, 1973 e 1974 con Henri Pescarolo alla guida della barchetta MS670.
D’altronde dai missili, alle macchine da corsa, il passo non è poi così lungo.
Alessandro Giurelli | Roma, 10 gennaio 2020.