Rallye : la scuola francese dei traversi.
Vediamo chi sa rispondere a questa domanda: quale fu la più grande novità apportata dalla Volkswagen Golf GTI nel 1976?
No, non si tratta del primato prestazionale dovuto alla valanga di cavalli che scalpitavano sotto il cofano, per quanto questi fossero molti, molti di più rispetto a colei che aveva ispirato il concetto di due volumi sportiva, la Alfasud TI. Non si tratta nemmeno di quel filetto rosso sbarazzino attorno alla mascherina, che sarà un feticcio di tantissime sportivette negli anni a venire, né della magica sigla GTI che sarebbe stata riutilizzata un po’ da tutti, francesi e giapponesi in primis.
No: la più grande novità apportata dalla Golf GTI è che fu la prima variante sportiva di un modello non sviluppata per precise finalità agonistiche. Detto in altre parole, mentre la Morris Mini dovette gran parte delle sue fortune commerciali alla fortunata carriera sportiva delle Cooper, la Golf GTI non ebbe bisogno di vincere neanche una Coppa del Nonno per essere in cima ai desideri degli appassionati. Certo ci fu chi la portò in pista ricavandone soddisfazione, ma non ci fu mai un impegno “ufficiale” come quello che vide nascere negli anni settanta dei combattutissimi monomarca come il Trofeo Alfasud o il Trofeo A112 Abarth. Tanto che, cavalli a parte, le caratteristiche della Golf GTI erano tutt’altro che corsaiole: lo sterzo era turistico e così l’assetto. Questo perché, essendo concepita come “sportiva in doppiopetto” doveva anzitutto essere facile da guidare e pure confortevole, e di conseguenza nella guida al limite in mani esperte, sterzo e stabilità risultavano problematici. L’Alfasud, intanto, stava su un altro pianeta. Ma vendeva molto meno della Golf.
La Golf GTI fu una vera svolta (nonché, per alcuni, l’inizio dell’imborghesimento) per il concetto stesso di auto sportiva. Per gli stessi, era inammissibile per una vettura essere definita “sportiva” senza fare sport, ma fu smentito dai numeri di vendita. La genìa delle sportive compatte ma confortevoli ed accessoriate di tutto punto, era appena cominciata. E, nel tempo, l’attività agonistica sarebbe stata sempre meno importante per la promozione di un modello, fino al piattume odierno.
Prima che il Nulla divorasse il nostro pianeta (e senza un Atreyu del cavolo che venisse a salvarlo), prima della deriva di costume e marketing, prima di tutto Fernet Branca… il richiamo al rally era fondamentale non solo per “spingere” un modello, ma anche per dare credibilità ad una Casa. Succedeva così che la Fiat avesse regolarmente a listino delle versioni denominate “Rally” dei propri modelli: dalla piccola 128 (che con un pizzico di ironia potremmo definire “brillante”, ma non proprio sportiva tout court) alle 124 e 131 che erano dei veri e propri mostri passati per le mani di quegli assassini potenziali domiciliati all’Abarth di Corso Marche, e costruiti nel numero necessario per ottenere l’omologazione agonistica. In quegli anni, l’enorme attenzione da parte di media e pubblico stava già rendendo le corse sempre meno alla portata di tutti. Ormai per correre non bastava più prendere la tua Fulvia HF, levare i paraurti, dipingere i numeri da gara, e buttarti in pista. Anche per via dei dispositivi di sicurezza ormai obbligatori, i rally richiedevano ormai un impegno economico considerevole.
Ma c’era una felice eccezione.
In quegli anni di cambiamenti e feroce agonismo, una Casa francese da poco uscita dall’orbita Fiat per confluire nel gruppo Chrysler, la Simca, doveva trovare il modo di aumentare le vendite del suo modello di maggior successo (la 1000, sviluppata quasi per intero proprio dalla Fiat e poi “ceduta” ai francesi in favore della meno dispendiosa 850) che cominciava ad essere obsoleto in un mercato sempre più “tutto avanti”. Memori della breve ma interessante epopea delle Simca Abarth 1150, nel 1970 i cuginetti della Simca prendono una Sim’4 (modello ultrabase della gamma, con allestimento e finiture di livello paleozoico), le piazzano il motore della sorella maggiore 1100 con potenza di 55 CV, montano una strumentazione sportiva Veglia e un sedile sportivo a guscio di sublime fattura, verniciando il tutto in colori sgargianti con cofano nero opaco e faretti supplementari: era così nata la Simca 1000 Rallye.
Fu un trionfo: la ritrovata immagine sportiva della marca (complici anche le vittorie a Le Mans delle vetture Matra Simca) e il prezzo d’acquisto sorprendentemente basso per una vettura praticamente “pronto corsa” portano la “Rallye” al successo di vendite e l’intera gamma della “1000” a superare nuovamente i 100.000 esemplari annui. La Simca fiuta il business e vengono creati trofei monomarca riservati alla Rallye, che dal 1972 ricevette, secondo il consueto criterio della “elaborazione al contrario”, il motore 1294 cm3 della “1100 TI”, offerto in due livelli di potenza e allestimento: Rallye 1 (monocarburatore, 60 CV, 155 km/h) e Rallye 2 (due carburatori doppio corpo, 82 CV, 170 km/h).
Riconoscibile per il radiatore posizionato anteriormente (idea presa in prestito da Abarth, of course), per la strumentazione a cinque elementi, per il colore “giallo corsa” (in realtà un verdognolo ottenuto riciclando una grossa partita di vernice per automezzi militari) e le differenti decals, la Rallye 2 è un autentico missile da corsa e il suo utilizzo in pista, sugli sterrati e nelle corse in salita, è massiccio anche in Italia. Nel 1975, un nuovo motore da 86 CV la rende ancora più competitiva e un vistoso spoiler posteriore tenta di aumentare l’aderenza del retrotreno, ma ormai le fortune commerciali della “1000” stanno rapidamente svanendo e, complice la crisi energetica, l’interesse per le corse va raffreddandosi. Ciò nonostante, l’egemonia della Rallye nelle corse continua fino alla presentazione, nel 1977, della crepuscolare ed estrema “Rallye 3”: parafanghi larghi, cerchi in lega Amil e due poderosi carburatori Weber DCOE da 40 alimentanti 103 cavalli per una velocità che sfiora i 185: tutto ciò con una antidiluviana Simca 1000….
Passa qualche anno, non facilissimo per la Simca, tanto che nel frattempo… Non si chiama nemmeno più Simca. Scaricata dal gruppo Chrysler in seguito alle perdite dovute alla freddezza con cui certi modelli del Gruppo erano stati accolti (la grossa e americaneggiante 180 – 2 Litre e la Sunbeam, che aveva di fatto preso il posto della “1000”, vincente in gara ma non sul mercato), finisce nell’orbita Peugeot, che decide bellamente di rimarchiare la gamma rispolverando il glorioso nome “Talbot”. Nel frattempo, la “strana” Sunbeam (che somigliava fin troppo alla Horizon quasi sovrapponendosi ad essa) lasciò il posto alla Samba: in pratica una Peugeot 104 leggermente allungata e con un frontale stile Horizon, sicuramente valida come utilitaria ma di fatto un deja-vu clamoroso, soprattutto considerando che la stessa base è servita per allestire la Citroen LN – LNA. Insomma, un esempio scolastico di “nozze coi fichi secchi”.
La vetturetta comunque è abbastanza riuscita, soprattutto grazie ad una campagna pubblicitaria che ne mette in luce il carattere sbarazzino e giovanile. Nel frattempo, la passata crisi energetica, il rinato ottimismo e la popolarità dei rally all’apice storico, suggeriscono di rinverdire l’immagine sportiva del gruppo con l’allestimento di una versione “Rallye” della Samba. Detto, fatto: si prende una Samba normale e….. La si lascia tale e quale, a parte le chiassose decals su fiancate e cofano, disegnate probabilmente da un bambino di otto anni, e una raccapricciante presa d’aria dinamica sul cofano ottenuta con un taglio di motosega, che svelava però la parte migliore della Samba Rallye: il motore serie XZ proveniente dalla Peugeot 104, sempre di 1294 cm3, ora alimentato con due carburatori doppio corpo ed erogante la ragguardevole potenza di 90 cavalli per una punta massima dichiarata in “oltre 176 km/h”. Costruita in economia quasi fastidiosa (anche la strumentazione lasciava a desiderare, dotata unicamente di un contagiri tanto piccolo che per leggerlo c’era bisogno di un telescopio astronomico), la Samba era veloce come un proiettile, maneggevole, stabile in curva (grazie al passo generosamente aumentato rispetto alla 104, oltre che all’assetto irrigidito con barre stabilizzatrici anche al posteriore) e in gara diventa la vetturetta ideale per correre, e vincere, spendendo pochissimo. Insomma, un successo, che dura dal 1983 al 1986 e viene interrotto solo dal declino commerciale della gamma Talbot, con conseguente decisione della Peugeot di sopprimere il marchio anche per evitare il rischio di concorrenza interna.
L’esperienza della serie Rallye di Simca e Talbot non si disperde però ai quattro venti, e ne è dimostrazione la nascita, nel 1988, di quel piccolo cult che risponde al nome di Peugeot 205 Rallye. Il motore è sempre lo stesso, ora siglato TU2 ma sempre con cilindrata di 1294 cm3. La potenza, invece, passa a ben 103 CV a 6800 giri, ottenuti “alla vecchia maniera”, ovvero con due generosi carburatori doppio corpo da 40, invece che con l’iniezione Bosch come nella “sorella borghesuccia” GTI. Oltre che all’iniezione e a tutti i vantaggi in termini di fruibilità che essa comporta, la 205 Rallye rinuncia anche ad ogni accessorio, avendo un allestimento ridotto all’osso che la pone al livello delle 205 meno costose, prive financo di tergilunotto o bocchette centrali del clima. Non sono previsti optional, nemmeno è possibile scegliere il colore, che è unico: bianco, con bande colorate rappresentanti i colori “da guerra” delle Peugeot da gara. Anche il font della scritta posteriore adesiva è un omaggio alle 205 T16 vincitrici del mondiale Rally di qualche tempo prima. Il resto dell’allestimento denunciava le cattive intenzioni del progetto: paraurti tipo GTI ma con feritoie di raffreddamento per i freni al posto dei fendinebbia, inediti passaruota allargati, cerchi larghi in lamiera anch’essi verniciati in bianco, e un interno in cui i tocchi sportivi (moquette rossa, sedili e volante tipo GTI) si contrapponevano a particolari che rivelavano fin troppa avarizia (vedi la strumentazione tipo GTI ma inspiegabilmente priva di menometro e termometro olio). Ma tutto quello che non c’è e che non si può avere nemmeno a pagamento, come nel caso della bruttarella Samba, è finalizzata al contenimento estremo dei costi, che in effetti risultano incredibilmente concorrenziali. Ne deriva il fatto che la 205 Rallye diventa la primissima scelta per chi vuole correre in modo competitivo spendendo il meno possibile. Per anni, soprattutto in gruppo N, la Rallye 1.3 diventa “LA” macchina per eccellenza, semplicissima da elaborare, anzi già alleggerita di fabbrica (790 kg, quasi un quintale in meno della già leggera GTI!) insomma un ennesimo trionfo commerciale e di immagine. Certo l’utilizzo cittadino non è ideale a causa della bizzosità dei carburatori, ma in pochi avrebbero comprato una Rallye per accompagnare i figli a scuola. A meno di non doverli accompagnare a 190 km/h e con un consumo degno di un Concorde.
Nel 1993 la 205 esce di scena lasciando il testimone alla compatta 106, e la Peugeot ripete intatta la formula vincente di una sportiva “fighetta” (la XSI 1.4 ad iniezione) affiancata da una “scorbutica” (la Rallye, che mantiene il vecchio TU 1294 cm3 ma con alimentazione ad iniezione multipoint Marelli, in ossequio alle norme anti inquinamento, che ne rende il funzionamento meno ostico ma diminuendone anche la potenza, ora di 98 CV). Pur se meno bisbetica, la 106 Rallye è pur sempre veloce (190 effettivi), spartana (l’allestimento ripropone la francescanitá della 205, compresi i vetri a manovella e la moquette rossa nel pianale) mentre finalmente c’è una vera e propria gamma colori, sia pur ridotta a poche tinte pastello. Ma, cosa più importante, la 106 raccoglie in grande stile l’eredità sportiva della 205 dimostrandosi altrettanto competitiva soprattutto nelle gare minori.
Nel 1996 il vecchio TU, ormai non più in grado di essere aggiornato per le norme anti inquinamento, va in pensione. La Peugeot, in occasione del restyling del modello, elargisce un surplus di potenza alla Rallye, che ora monta il 1580 cm3 da 103 CV e 196 km/h della GTI, a sua volta diventata 16V grazie al leggendario bialbero da 120 CV che equipaggiava anche la cuginetta Saxo VTS e la spinge alla fantascientifica velocità massima di 205 km/h. La 1.6 “otto valvole”, a giudizio degli appassionati, fu l’ultima vera Rallye “vecchia scuola”, con ancora il suo bravo allestimento degno di un oplita spartano e i suoi cerchi larghi di tolla verniciata: nel 1998, infatti, la “Rallye” identifica il vertice di gamma e prende di fatto il posto della GTI, compreso il motore bialbero da 120 CV e l’allestimento completo e ben dotato di quest’ultima. I tempi, insomma, erano già cambiati, il mercato anche, e le spartane dure e pure, senza sconti che non fossero quelli sul prezzo di listino, non piacevano più. Con la 106, in buona sostanza, morì la fortunata ed epica formula delle vetture pronta gara, delle “palestre a quattro ruote” che rivelavano le doti di chi le portava in pista. Fucine di campioni, che cominciarono la loro carriera grazie a queste scatolette spartane, competitive e ultraconvenienti.
E la Golf GTI?
Secca ammetterlo ma, a giudicare dal mercato….. aveva ragione lei.
Antonio Cabras | Milano, 7 gennaio 2020.