la Sindrome di Ingolstadt.
Non si dica che le cose non abbiano un’anima.
Hanno anima, carattere e vita propria, forse perché nascono dal pensiero di qualcuno, e di qualcuno sono, fino a contraria prova, l’estensione materiale.
Non è filosofia, ma il senso di un capolavoro come “Le cose che pensano“, scritto da Pasquale Panella, musicato e interpretato da Lucio Battisti, nell’unico disco in cui traspaia ancora qualcosa di quello che era prima, ai tempi di Mogol.
Un capolavoro finito in classifica solo per il nome che inizia per B, del cantante (sarebbe il cognome, ma si sta citando un’altra canzone, scritta però da Velezia, sua moglie), e per inerzia. Forse, vagamente compreso dal pubblico, in un’era un po’ più tranquilla e stabile, per l’Italia e per Lucia.
E senza divagare anche su Venditti, diventa doveroso spiegare cosa sia questa sindrome: la Sindrome di Ingolstadt.
In un’epoca come la nostra, in cui va particolarmente di moda essere, nell’ordine: Barber; restauratori di automobili (senza saperne, ovviamente); motivatori seriali perché tutti vogliono viaggiare in prima e, ultimo ma non per prestigio, persino psico-logi o iatros della psiche, è chiaro che diventi anche facile essere esperti sindromologici, quindi adatti ad andare a correre ai sindrodromi.
Ergo, per non essere da meno, ieri notte ho deciso, stabilito e approvato, con votazione unica e rigorosamente via web, perché va di moda anche quello, che debba esistere la Sindrome di Ingolstadt, che presenta le seguenti caratteristiche:
- Progettare e costruire utilitarie lussuose, senza che sembrino da Casamonica o da Rick Astri.
- Venderle a cifre da segmento premium del premium superiore, sempre senza radica o finiture del momento.
- Puntare sull’alluminio, che costa un casino, ma fa figo e fa consumare meno, ma tant’è. Piace l’elettrico.
- Fare flop, al punto da dover ricorrere a stratagemmi stile MINI, su temi estetici peggiorativi.
- Per chiudere la top five, chiudere anzitempo la produzione, smenando.
Tale sindrome si è palesata ripetute volte, nel corso della storia della Casa di Ingolstadt, che ovviamente non serve che io citi perchè, se devo, allora andate a leggere Donna Moderna o Diva e Donna, o Al Bano Volante.
La prima, più eclatante, si chiama 50. L’Audi 50 uscì così, in sordina, come sovente succede al Gruppo VW, che lancia le cose senza troppi proclami, anzi, anche senza dirlo.
L’Audi 50 era bellissima, costosa, rifinita da Dio Padre Onnipotente, se non meglio. In un’epoca in cui le 127 arrugginivano, appena uscivano dalla catena di montaggio, pur essendo scattose, non ancora comodose, non ancora troppo risparmiose.
In un’epoca in cui, per essere eleganti, bastava puntare sulla Autobianchi A112, made in Brianza, curatissima e meno predisposta alle corrosioni varie, alle carie e alle patologie torinesi tipiche.
L’Audi 50, nel segmento B, era una novità. Ma costava troppo. Ergo, anticipare di 10 anni un’altra cosa da Autobianchi, ma quella è un’altra sindrome: abbassare i prezzi, entro un anno dall’uscita.
Fa niente se, quello che l’ha comprata il giorno prima dei ritocchi di listino, abbia un po’ il belino girato, e la bile arrossata.
Si cambia una mascherina, si toglie una retro, si toglie una cromatura e passa la paura.
Valse per la Y10, ma valse quasi anche per l’Audi 50, retrocessa in B normale, e ricollocata nella non povera, ma pur sempre del Popolo, Volkswagen.
Per ironia involontaria, visto il buco nell’acqua, si è voluto optare per un nome come Polo.
L’onestà porta bene, evidentemente, perché come Polo ha funzionato abbastanza da salvare i conti e i costi di produzione, e quanto basti da lanciare un’ignobile versione 3 volumi, da chiamare Derby, e da consumarsi prima della data di scadenza. Brutta ma affidabile, la Derby ha pur sempre venduto, anche in Italia, dove le 3 volumi sono viste come il fumo dell’Ilva negli occhi.
Non contenti, i vertici di Ingolstadt si sono fatti del male ancora, quando hanno deciso di lanciare la A2.
Bellissima, amatissima dagli architetti, esattamente come accadde alla prima Panda, anche in quel caso prima dei ribassi dei prezzi di listino, ma incompresa da tutti.
Colpa della linea, troppo bella per chi abituato a comprare il restyling osceno della Punto firmata “ma quale idea”, colpa degli interni senza tamarrerie rusticane, o colpa del cofano, che doveva essere aperto solo da personale qualificato?
Non lo sapremo mai. Sta di fatto che, nel 2001, dopo 2 anni scarsi dal lancio, la Casa degli Anelli pregò il Signore (compreso quello degli anelli) di non perderci troppo, e la vestì da Mini venuta male, con passaruota neri, paracolpi neri e colori fuori luogo: giallo macchinadapovero, rosso vorrei ma non posso, blu elettrico bolletta sparata, e altre amenità che la mente non vuol far tornare.
Bello, eh?
E il bello è che, un po’, questa eterna malattia la si sia riuscita a trasmettere persino ai TENNICI di Wolfsburg, capaci di pensare a una Panda ripandata, stile Panda 30, guidati da De Silva, che non sempre è stato capace di farsi capire, nel progettare e far lanciare una grandissima incompresa: la UP.
La UP, pur essendo Volkswagen, tramanda parte di questa gravissima sindrome, e reitera gli errori commessi con l’Audi 50 e l’Audi A2: finiture troppo poco pop, prezzi alti, ma anche una comodità pari allo 0 secco.
Dovendo scegliere tra UP e Fiat 500, è normale che il Popolo scelga la 500. Ma, questa volta, anche con un po’ di ragione.
A cosa serve, rifare una Panda, quando la Panda non ha bisogno di un vetro a compasso, e quando la Panda non sembra un microonde?
Serve a dimostrare di saper costruire utilitarie snob, ma senza l’elemento sogno, tipico delle Autobianchi e tipico delle italiane più sfiziose.
Qualcuno chiederà perché non tiri fuori la Lupo, ma la risposta c’è: la Lupo aveva lo stesso vizio, ma almeno era colorata. Esisteva verde lime, giallo limone, rosso Flash predisposto a sbiadire, e c’era anche GTI, con elementi Porsche, veri.
La Lupo ha venduto molto di più e, in pratica, era anche molto più pop, molto meno da architetto amante della Bauhaus, molto ypsilondieceggiante, e con un volto molto simpatico.
Quindi, in zona Cesarini, si salva da questa sciaguratissima sindrome, capace di mandare in rosso anche i conti di un colosso.
Evidentemente, però, persa la Lupo, non si è perso il vizio.
Enzo Bollani | Milano, 13 marzo 2019.