A cosa serve, la Seat?
Molti se lo domandano, ma la domanda può essere più marginale della risposta che può derivarne, e allora ci si dimentica.
Prima ancora di porsela, probabilmente.
Io, però, osservando una Seat Ateca ferma al semaforo, nel suo bell’arancione metallizzato, tipico colore da presentazione, visto e stravisto, soprattutto quando si ha poco da dire o si vuole rilanciare qualcosa, mi domando a cosa serva.
Forse non bastavano la Tiguan e la Karoq?
La sindrome da fotocopia la posso capire solo sulle citycar invendibili, come la Mii, il cui nome può solo far venire in mente Aldo, del trittico “Aldo, Giovanni e Giacomo”, ma se il trittico Mii – CityGo – Up! non vende, o vende a malapena, perché reiterare il crimine contro l’estetica, fotocopiando Seat e Skoda?
Cos’abbiamo fatto, di male, per vedere reintrodurre il family feeling di 25 anni fa, della seconda Ibiza, sorpassato a dir poco?
Forse pensano che basti una striscia a led, ma questo clamoroso passo indietro, dopo aver dato un minimo di senso a un marchio con poco senso, grazie alla Leon di De Silvia, l’unica spagnola decente dai tempi della Hispano-Suiza, è da irriconoscenti, o da pazzi.
La Leon attuale, in tutto questo, è un altro orrore, e non ne vendono. Almeno, in Italia.
In Spagna le comprano solo per il loro nazionalismo, come già facevano con la Seat 131.
Una mia amica, Trent’anni fa, si vantava enormemente per avere una Supermiraflores, ma sottolineava anche il lusso di avere un’automobile italiana.
Se a dirlo era una ragazzina, ho detto tutto.
Gli unici successi autoctoni, o quasi, del marchio, sono stati un paio: la prima Ibiza, di Giugiaro, e la Leon, di De Silva.
Per il resto, ci sarebbe da aprire una parentesi con baule sporgente sulle simil Renault dell’era Altea e Toledo (tris).
Cosa pensassero di fare, non è dato sapere.
Almeno, avevano un minimo di originalità, e qualcuna se ne vedeva, in giro.
Perché erano assemblate anche bene e, su questo, il Gruppo Volkswagen non ha rivali.
A parte gli italiani, le rare volte che si impegnano.
Tuttavia, nella Storia di un marchio senza grande Storia, senza infamia e senza lode, ma soprattutto senza Stile, c’è qualcuno che ha avuto un’impennata di Stile e di arguzia, di acume, di coraggio, nell’affermare che la Seat sia come l’Alfa Romeo.
Lo ha detto un dirigente.
Forse sarà stata colpa del Tempranillo.
Ma non tirerei in mezzo la Tempra… Con il rischio che poi, nel rifare i musi degli anni ’90, gli venga voglia di rifare la prima Toledo, altro magnifico aborto con le ruote.
Stavolta, non basterebbe nemmeno Raffaella Carrà, a promuoverla con 5 mesi di anticipo in prima serata su TVE e sulla Rai, rispetto alle vendite.
Proprio non c’è santo che tenga: la Seat è tutto, meno che un’Alfa Romeo.
Al massimo, può colpire la frangetta più tamarra del pubblico delle Alfa vorrei ma non posso, sempre presenti nel listino del Biscione, dalla Dauphine in poi.
Che poi, quelle su licenza Renault e poi Nissan, erano le meno peggio, di quella branca di prodotti low-cost in un marchio premium.
Cose inspiegabili, che accadono nel marketing dell’Automotive, spessissimo incapace di interpretare le emozioni.
Come quando Marchionne disse che la Lancia non avesse alcun appeal.
Enzo Bollani | SuperPista
Milano, 22 ottobre 2018.